Una notte «torinese»

Di Francesco Cordero di Pamparato (prima parte)

L’amico Francesco Cordero di Pamparato, autore del romanzo inedito “Cavalieri dal Buio alla Luce” già apparso a puntate su Civico 20 News, mi ha permesso di riportare questo suo lungo racconto, contenuto nel suo libro “Nove notti magiche” (Sottosopra, Torino, 2019). Ringraziamo l’Autore per la sua disponibilità con l’augurio di buona lettura (m.j.).

 

Il cielo era buio e cupo, nuvole piene di neve lo coprivano. Era così dal mattino, sempre grigio e senza alcuna schiarita, tanto da far perdere il senso del tempo, che però passava. Poteva essere qualsiasi ora, sera o notte, tanto la luce non era variata, o meglio non c’era mai stata. Alberto non ci fece caso. Era una delle solite giornate invernali torinesi. Ormai se ne era rassegnato. Dopo anni di permanenza in Africa, era tornato alla città dei suoi avi, non sapeva neanche lui perché. Ma di certo non si era più ambientato. Una volta amava la sua città come una persona cara, una parente o un’amante. Ora non più. L’aveva trovata diversa, cambiata e molto in peggio. Quella città non era più sua. Il degrado l’aveva talmente trasformata che quell’amore era quasi diventato odio. Solo una cosa lo legava ancora a quel mondo. Il libro che stava scrivendo.

Ultimo di un ramo di una delle più antiche famiglie della regione, aveva deciso di raccogliere il materiale di studio dei vari antenati e di scrivere la storia del casato. Era scapolo senza figli. Il suo ramo si sarebbe estinto, ma avrebbe consegnato come eredità la storia della famiglia. Con i tempi che correvano era meglio che lasciare un figlio in un mondo in piena decadenza. Non appena finito avrebbe abbandonato quella città e l’Europa.

Non sapeva ancora dove sarebbe andato, di certo nel terzo mondo cercando un paese dove gli americani non avessero ancora esportato la loro inciviltà. 

Erano pensieri che vagavano in un angolo remoto della sua testa. Il suo principale pensiero ora era quel libro. Da quante ore ci stava lavorando? Non lo sapeva neanche lui, sia per quanto si era concentrato, che per quel maledetto cielo così buio che non lasciva capire se fosse giorno o notte. Aveva alzato la testa dal computer, guardava pensoso la prima bozza del libro. Era un lavoro che gli stava dando soddisfazione, ma lo aveva messo in crisi. Aveva sempre vissuto in modo errabondo, un po’ in un paese un po’ in un altro. Aveva girato tre continenti e non aveva mai trovato una sua collocazione.

A dire il vero non l’aveva mai cercata. Non aveva mai messo radici in nessun luogo. Quel libro era stata un’esperienza strana: si era dovuto documentare su circa mille anni di storia dei suoi avi. Così le sue radici, quelle che di cui non si era mai curato, che quasi aveva rifiutato, gli erano balzate davanti, silenziosamente, prima lentamente poi sempre di più in un crescendo che lo aveva legato ad una parte di sé che aveva sempre posto in un angolo remoto del suo io. E proprio ora che stava preparando i suoi piani di partenza, quel libro che avrebbe dovuto essere il suo biglietto di commiato lo stava riportando, in una maniera quasi subdola, a quel mondo a cui voleva dire addio per sempre.

Fu il rumore sordo proveniente dalla strada a distrarlo. Era andato ad abitare in Corso Francia uno dei più bei viali di Torino. Ma quel largo viale era teatro di innumerevoli incidenti. Ora purtroppo ne era successo uno mortale. I vigili del fuoco stavano estraendo due cadaveri da una macchina. La cosa lo turbò profondamente. Ne fu anche sorpreso: nella sua vita movimentata aveva assistito a guerre civili in Africa e in quelle circostanze i morti non si contano. Ormai la morte non lo impressionava più, solo in occidente si rifiuta la morte. Nel terzo mondo è considerata tanto naturale come la vita, e in fondo hanno ragione loro. Ma la vista di quei poveretti lo colpì come non gli accadeva da tempo. Proprio in quel momento, la radio, sintonizzata su una stazione locale, sospendeva la musica per ricordare come ricorresse l’anniversario dell’incendio del cinema Statuto.

Alberto ricordava bene quel dramma di molti anni prima. Nessuno a Torino lo aveva dimenticato. In una nevosa domenica di gennaio, il cinema Statuto aveva subito un incendio in cui erano morte sessantaquattro persone. Tutta la città si era sentita partecipe di quella sciagura. La radio lo stava dicendo. C’erano cose che però non diceva, cose che Alberto conosceva bene. L’incendio aveva ucciso sessantaquattro persone: trenta uomini trenta donne, due bambini e due bambine. Il film che veniva proiettato era “La Capra”. Un film francese. Per i francesi la capra è lo iettatore, colui che attira le disgrazie.  Per i satanisti la capra è il simbolo del demonio. Il cinema Statuto era a duecento metri da uno dei principali punti di ritrovo dei satanisti proprio nella piazza che porta lo stesso nome del cinema. Lì è situato un piccolo obelisco che i seguaci di Satana dicono sia la porta dell’Inferno. 

Alberto si sedette un momento pensoso: anche la palazzina Liberty dove lui viveva era vicina a piazza Statuto il polo nero di Torino. Ci era andato a stare perché il liberty, tipico di quel quartiere era lo stile architettonico che più gli piaceva, ma il fatto che quella zona fosse definita come polo negativo della città gli procurava un certo disagio.

I suoi pensieri si spostarono allora su Torino. Forse l’unica cosa che la città non aveva perso era il suo alone di magia. Si diceva che con Londra e Lione formasse un triangolo magico, e che un altro formasse sempre con Lione e con Praga. In ogni caso Torino era un centro di magia sia bianca che nera con il polo nero proprio lì a due passi da casa sua in piazza Statuto e il polo bianco o positivo alla chiesa della Gran Madre di Dio appena oltre il Po, dove molti sostengono anche che sia nascosto il Sacro Graal. La nomea di città magica risaliva molto indietro nei secoli: qui aveva dimorato per un certo tempo Nostradamus. Quello che oggi è il suo più accreditato interprete e che vive anche lui a Torino, riuscì a trovare la lapide che ricorda il suo passaggio. Tradotta da un francese dell’epoca e che contiene errori si legge: “1556 Nostradamus ha abitato qui, dove c’è il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio. Io mi chiamo la Vittoria. Chi mi onora avrà la gloria, chi mi disprezza avrà la rovina intiera” 

Si sentiva agitato, non era più nello spirito di scrivere. Non aveva neanche voglia di stare chiuso in casa. Il tempo era orribile ma un impulso illogico lo spinse ad uscire. C’era un qualcosa dentro di lui che lo spingeva fuori, voleva stare solo, o meglio solo con quella città che aveva amato come una persona cara  e ora non sapeva neanche lui se gli suscitava amore od odio. Il suo sarebbe stato quasi un pellegrinaggio all’interno di Torino, voleva riscoprirne le molte anime, ricordarne se non la storia, almeno quanto di quella città aveva ancora per lui un significato di ricordi, di aspetti che realmente aveva amato di quella città. Cosa ne era rimasto, cosa ancora amava e cosa lo aveva deluso. Rivederne anche, per quanto lo interessava gli elementi più singolari, quelli che avrebbero potuto eliminare almeno in parte i suoi interrogativi. Tra questi, naturalmente Alberto includeva quella magia per cui la sua città andava famosa.

Non guardò l’ora, ma dal buio che faceva doveva essere già notte. Nell’aria c’era odore di neve, ma non diede peso alla cosa. In pochi minuti fu in piazza Statuto. Il piccolo obelisco si stagliava nero nella notte come un dito minaccioso, sembrava quasi indicare il luogo dove era stato il cinema bruciato. Sul basamento di pietra mani ignote avevano dipinto in nero figure incomprensibili. Probabilmente si trattava di simboli demoniaci. Provò un senso di repulsione, di sgomento, quasi di paura. Avvertiva un’atmosfera sgradevole, tanto forte da potersi quasi respirare e toccare. Sentiva delle presenze, invisibili, impalpabili, ma tuttavia reali e percepibili, ed erano ostili. Come una specie di cappa che avviluppasse tutta la piazza e le vie circostanti. A questa sensazione accomunò strane ombre che si aggiravano apparentemente senza meta. Erano forse dei seguaci del demonio che si riunivano là per i loro riti? Erano forse demoni che avevano preso corpo? Meglio non indagare e accelerare il passo. Era meglio staccarsi da quello che poteva essere l’inferno descritto dalla lapide.

Poco più in là, sempre nella stessa piazza, si ergeva imponente il monumento ai caduti nella realizzazione del traforo del Frejus. Un monumento imponente, anche se non dei più belli. Ma anche quello era una raffigurazione di vittime, la testimonianza di una strage. E tutte le stragi non sono forse emanazioni di energia negativa?  Preferì proseguire. Era meglio dirigersi verso il polo positivo, lontano, oltre il Po. È strano, pensò, Torino è città con due anime. Ha dato i natali a tanti grandi santi e nel contempo è uno dei centri mondiali del culto demoniaco. Come possono coesistere queste due facce? Tanti uomini che hanno dedicato la loro vita a lenire i disagi e le sciagure degli altri coesistono con tanti altri uomini che si dedicano al culto di entità malvagie? Un ulteriore quesito che si poneva era come una città potesse avere tanti abitanti così logici così seri, apparentemente razionali in tante manifestazioni e tanto dediti all’irrazionale della magia dall’altro?

Francesco Cordero di Pamparato (Fine prima parte – continua)

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Articolo pubblicato il 04/02/2021