«Gli obelischi egizi»: imponenti costruzioni che suscitano ancora interrogativi
Facciata del tempio di Luxor (l'obelisco mancante è a Parigi)

Una ricerca dell'egittologo Riccardo Manzini per la comprensione di questa antica civiltà

Gli obelischi egizi fanno parte delle “immagini-simbolo” che hanno caratterizzato questa antica e sorprendente civiltà millenaria.

Queste strutture monumentali, imponenti e suggestive, pongono una serie si interrogativi ai quali resta ancora difficile fornire risposte esaustive, universalmente condivise. Occorre infatti tener conto delle disponibilità tecnologiche limitatissime del tempo (età del rame e bronzo) e questo elemento ha talora sollevato il dubbio sulla concreta possibilità di realizzare strutture costituite da materiali la cui durezza minerale è molto elevata.

Sono quindi sorte ipotesi fantasiose di interventi di civiltà più evolute e inevitabilmente aliene. Questa contrapposizione interpretativa rende affascinante e avvolta da un’aura di mistero la realizzazione di queste opere che destano nel visitatore stupore e ammirazione.

Rientra in questo contesto l’articolo “Gli obelischi” del dottor Riccardo Manzini - medico chirurgo ed egittologo - che riportiamo con il ricco corredo di immagini e che fornisce una solida documentazione interpretativa di questa realtà costruttiva.

Nel ringraziare l’Autore, per la sua precedente e attuale collaborazione, auguriamo buona lettura (m. b.).

 

Gli obelischi

 

Sebbene l’abitudine a vederli in molte città li rendano oggi quasi facenti parte dell’arredo urbano, nell’antichità gli obelischi hanno costituito una prerogativa esclusiva della civiltà egizia dal profondo significato simbolico e religioso.

Da un punto di vista meramente architettonico sono strutture quasi sempre di pietra di forma fortemente allungata e sezione tronco-piramidale culminanti con una piramide cuspidale (slide 1), documentate con certezza dalla fine dell’Antico Regno; solamente alcuni dubbi ruderi in mattoni ritenuti possibili resti di obelischi sono stati attribuiti ai periodi precedenti.

I classici obelischi in pietra sono dei monoliti recanti su ogni faccia una decorazione costituita da colonne verticali di geroglifici profondamente scolpiti celebranti il committente (slide 2). La cuspide, spesso decorata con immagini divine (slide 3-4), era sempre rivestita con sottili lastre metalliche di oro, rame o elektron, incise o fatte aderire per martellamento.

Se il più antico obelisco documentato è quello di Eliopoli (Cairo) eretto da Teti, primo sovrano della VI ed ultima dinastia dell’Antico Regno, in seguito divenne un ornamento costante dei templi ed a volte anche delle tombe. Con le sole rare e dubbie eccezioni di obelischi isolati, in accordo con l’amore egizio per la simmetria questi elementi si presentavano sempre in coppia a demarcare gli ingressi monumentali. Ne sono esempi quelli che delimitavano l’ingresso dei Complessi funerari delle regine di Pepi II Neith ed Iput (ultimo sovrano della VI dinastia), ma soprattutto quelli anteposti alle facciate dei templi del Nuovo Regno (slide 5).

Se però nel mondo attuale gli obelischi costituiscono un mero ornamento urbano a testimonianza dei periodi coloniali in cui vennero asportati dalle collocazioni originarie, per gli antichi avevano un importante significato religioso rappresentando simbolicamente il dio sole Ra. Questo legame divino, dedotto comunque da numerosi indizi, fu espressamente dichiarato nel periodo di Akhenaten in cui gli obelischi parteciparono alla celebrazione del dio sole (in quel caso il disco solare Aton) in quanto simboleggianti il suo raggio pietrificato.

L’attinenza con il sole divinizzato in ogni sua forma era testimoniata in particolare dalla cuspide sommitale in quanto rifletteva i raggi solari ma anche dalla sua originaria denominazione ben-ben, come la collina primordiale in cui secondo la loro cosmogonia il sole aveva brillato per la prima volta. Con questi monumenti non solo si voleva quindi celebrare simbolicamente quel dio, ma altresì richiamare giornalmente l’atto creativo attraverso il riflesso della sua sommità. Il materiale prezioso di queste cuspidi richiamò per altro i ladri fin dall’antichità, così che nessuna di queste lamine è giunta a noi.

Quando i tolomei risollevarono l’Egitto dopo secoli di decadenza gran parte di quell’antica cultura, compreso il geroglifico, non era più conosciuta se non da pochi dotti, né si preoccuparono di riscoprirla (con la sola eccezione forse di Cleopatra VII che sembra ne abbia imparato la lingua).

Sebbene la conoscenza di quella cultura e delle sue simbologie si fosse quindi ulteriormente ridotta quando i romani conquistarono l’Egitto, e la loro indole militaresca non li abbia spinti a cercare di comprendere quelle testimonianze, ne rimasero comunque tanto affascinati che i numerosi oggetti e culti egizi importati a Roma finirono per influenzarne la cultura.

Probabilmente attratti solamente dalla loro singolarità (in quanto non ne comprendevano il reale significato), i romani asportarono dall’Egitto numerosi obelischi che vennero impiegati per abbellire Roma, come quello attualmente in piazza S. Giovanni in Laterano (slide 6), realizzato da Thutmosi III per il tempio di Karnak ed asportato da Costanzo II. In seguito furono però gli stessi imperatori romani a realizzare obelischi per celebrare le proprie glorie, come quello di Domiziano a Benevento (slide 7).

La conseguenza di queste asportazioni fu che a Roma vi sono oggi più obelischi di quelli rimasti in Egitto e, sull’onda di questa tendenza, molti obelischi continuarono ad essere trafugati fino alla legge Mariette che, nel XIX secolo, vietò l’esportazione dei reperti. I più noti di questo gruppo sono quello di Costantinopoli, realizzato da Thutmosi IV per il tempio di Eliopoli ed asportato dall’imperatore Teodosio I (slide 8), quello di Central Park a New York (gemello di quello di Costantinopoli) e quello di Place de la Concorde a Parigi, realizzato da Ramesse II e gemello di quello rimasto ad ornare la facciata del tempio di Luxor (v. slide 5).

Fraintendendone totalmente il significato, il modello dell’obelisco fu infine acquisito dalla cultura occidentale dove divenne un simbolo mortuario frequentemente presente in tombe e cimiteri in quanto gli venne attribuito un immotivato legame con l’eternità.

Particolarmente interessanti e non del tutto chiarite sono le vicende lavorative necessarie alla produzione, al trasporto ed all’innalzamento degli obelischi.

Poiché la maggior parte degli obelischi egizi sono di quarzite, di granito grigio o rosa (il cui colore richiama i riflessi solari) e tali materiali provengono prevalentemente dalla zona di Aswan, in tale area furono aperte numerose cave e le maestranze acquisirono una grande abilità lapicida.

La lavorazione iniziava con la demarcazione di un’area più ampia di quella prevista per l’obelisco il cui perimetro, in mancanza di utensili metallici, era approfondito con mazze di dolerite (slide 9), cunei e frantumando la roccia per shock termico (alternanze di acqua calda e fredda). In questo modo si otteneva una profonda trincea che circondava su tutti i lati l’obelisco, e l’operazione terminava con lo scavo orizzontale della roccia sottostante al monolito, procedendo dai lati fino a lasciarlo sostenuto da un solo precario settore centrale (slide 10).

Dopo aver forzato con delle leve il monolito finché non si rompeva il fragile sostegno inferiore ed aver demolito la parete rocciosa della trincea prospiciente il fiume, l’obelisco veniva sgrossato (anche per diminuirne il peso) e caricato su slitte assemblate direttamente sotto di esso, le quali venivano fatte discendere su percorsi costituiti da tronchi trasversali perché non affondassero nella sabbia. Tutte queste fasi sono documentate dai ritrovamenti (slide 11).

Più dubbio è come gli obelischi venissero caricati sulle navi che li avrebbero dovuti trasportare a destinazione, in quanto se questo trasporto è documentato da decorazioni parietali (slide 12), la metodica può solo essere ipotizzata. Confrontando esempi di analoghe lavorazioni si è infatti potuto credibilmente ipotizzare che le imbarcazioni di papiro venissero praticamente costruite sul posto sotto l’obelisco procedendo per settori, e che in ultimo questo bacino venisse collegato al Nilo per permettere la navigazione.

L’aspetto apparentemente più incerto è quello riguardante le modalità di innalzamento degli obelischi poiché non esiste alcuna documentazione esplicita; sebbene questa metodica sia infatti illustrata sulle pareti di alcuni templi, è raffigurata in senso simbolico in quanto attuata dal solo faraone. Uno studio ormai accettato dagli studiosi basato sulle sole abitudini costruttive egizie ha però analizzato le possibilità offerte dai mezzi e dalle conoscenze sicuramente in possesso degli egizi ricostruendo credibilmente questa manovra, i cui calcoli sono per altro dettagliatamente documentati in alcuni papiri dove si analizzano i dettagli ed i limiti di questa operazione.

Con gli scarsi mezzi a loro disposizione, ma altresì sfruttando il tempo illimitato, confrontando le altre situazioni in cui si sono movimentati enormi blocchi pur senza disporre di argani, si presume che gli egizi ricorressero al principio del martinetto a sabbia.

Sintetizzando questa metodica, si iniziava ponendo sul terreno nel luogo prescelto i lastroni di pietra che avrebbero costituito il basamento dell’obelisco e costruendo da due lati opposti liberi da costruzioni due enormi murature provvisorie in mattoni di altezza opportunamente calcolata, di cui una presentava alla sommità un piano inclinato (slide 13).

Poiché le due rampe rimanevano separate, costruendo due spessi muri laterali di contenimento si sarebbe ottenuto un enorme vano ad imbuto centrato sul basamento, che veniva riempito con l’asciutta sabbia desertica.

Dopo aver trainato fino al termine del piano inclinato la slitta gravata dall’obelisco (operazione consentita dalla documentata estrema fluidità del limo nilotico umido), si faceva sporgere il suo centro di gravità sulla sabbia che riempiva l’imbuto, facendo attenzione che la sua base non lo eccedesse (v. slide 13a).

Lasciando defluire gradualmente la sabbia alla base inferiore dell’imbuto da appositi orifizi l’obelisco sarebbe progressivamente e gradatamente disceso attratto dal suo stesso peso (v. slide 13b-c), finché lo spigolo di base non si fosse incastrato sull’incavo ben visibile sugli attuali basamenti e l’obelisco non si fosse trovato quasi verticale. L’operazione sarebbe stata infine completata dalle maestranze poste sull’altra rampa con uno sforzo molto contenuto (v. slide 13d), dopo di che tutte le rampe in mattoni venivano demolite per liberare l’obelisco ormai in opera.

Questa metodica può sembrare complessa, ma analoghi sistemi, seppur su scala inferiore, sono ben documentati in altre strutture, come la posa in opera delle travi a contrasto di copertura delle cripte piramidali o dei grandi blocchi di chiusura delle cripte delle piramidi del Medio Regno.

Riccardo Manzini

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Articolo pubblicato il 31/12/2020