«Rinvio Italia»
Francisco Goya, Rissa a bastonate

Scuola, Elezioni.... - Fino a quando? (Di Aldo A. Mola)

L’eredità non è un gioco di parole

Il 2020 lascia una pesante “eredità” all’anno venturo. Qualunque ne sia l’esito, il verboso duello tra l’italovivente Matteo Renzi e il presidente Conte non finirà con la pace ma con un fragile armistizio, intervallato da scaramucce in vista di altre ostilità e della battaglia finale. Però, a differenza delle tante crisi di governo che si sono susseguite nella prima come nella seconda repubblica, l’attuale non prevede che tutte le parti in lotta si possano proclamare più o meno vincitrici. Alcuni suoi protagonisti finiranno nella polvere senza speranza di riscossa. Possono prendere per insegna l’elogio del valoroso Jacques II de Chabannes de la Palice (1470-battaglia di Pavia, 1525): “un quarto d’ora prima di morire era ancora vivo”.

Il Soggetto del 2020 è stato il “rinvio”. In passato l’Italia ha avuto governi di coalizione. Dopo quelli nel 1944 imposti dal Comitato di liberazione nazionale, che confiscò temporaneamente la rappresentanza nazionale, dal 1947 nacquero ministeri incardinati sulla Democrazia cristiana, un partito di centro che secondo alcuni guardava a sinistra ma si voltò anche a destra e dopo i governi della “non sfiducia” divenne il perno del Grande Centro, dai liberali ai socialisti. All’inizio degli Anni Novanta (dei quali si è perduta memoria) implosero tutti i partiti prefascisti e ciellenistici. La DC risaliva al Partito popolare italiano fondato da don Sturzo nel 1919, i liberali che si dettero nome ma non sostanza nel 1922, i socialisti di varia osservanza derivavano dal Partito dei lavoratori italiani del 1892, i repubblicani erano sorti a fine Ottocento. Fondati cent’anni prima, i radicali disparvero una seconda volta, spossati da Cicciolina. In lutto per la dipartita dell’URSS e la caduta del Muro di Berlino il partito comunista intraprese il cammino: da DS sino al PD odierno, all’insegna della botanica e in omaggio alle Metamorfosi di Ovidio, dalla Quercia all’Ulivo, ma a differenza delle narrazioni mitologiche non ebbe mai un Adone. Oggi ha Zingaretti.

L’introduzione del maggioritario fu corretta e corrotta con cospicue quote di proporzionalismo da scaltri democristiani. Così il “sistema” favorì la sopravvivenza di partiti medi, piccoli e minimi, vassalli del sottogoverno e della burocrazia che tengono a guinzaglio la democrazia formale e impedì l’avvento di maggioranze solide e durevoli. Per portare alla presidenza del Consiglio il comunista Massimo D’Alema bastò inventare un micropartito di cui si è persa memoria. Al potere si alternarono coalizioni opposte, ma di breve periodo. Impossibilitati a procedere nel tempo, i governi hanno giocato di rimessa. Strappata la palla all’avversario ogni nuova compagine ha giocato al centro campo: tanti passaggi da una zona all’altra, palle fuori, palle in tribuna, parecchi falli, mai una vittoria netta. Esauriti anche i tempi supplementari di quelle sceneggiate, gli spettatori hanno perso la pazienza. Una parte cospicua non è andata alle urne. Altri hanno regalato quattrocento seggi a un Movimento nato “contro tutti”, privo di programma, dirigenti sperimentati, relazioni con le grandi famiglie politiche dell’Unione Europea (popolari, socialisti, liberali e persino i verdi, che in Italia non esistono), ma pronto farsi carico dell’universo mondo. Novelli Ercole, promettevano di pulire le cloache della politica. Ma poi?

Il seguito è sotto gli occhi di tutti. La crisi che si trascina sin dalla proterva liquidazione del governo Berlusconi l’11 novembre 2011, pronubo Giorgio Napolitano: anni scanditi da fuochi d’artificio spettacolosi, come avviene a fine anno, a carnevale, per le feste patronali. Spenti gli sprazzi torna il buio. Cominciò la luminaria di Monti Mario, “salva Italia”, pallida controfigura eurodiretta del nostrano Lamberto Dini. Dopo la mesta vicenda del governo Enrico Letta, sorretto da Forza Italia nel timore del peggio, Matteo Renzi e Maria Elena Boschi s’intestarono la riforma della Costituzione sottoposta a verifica referendaria, con esito per loro mortificante. Passarono come comete, alcune delle quali portano bene, altre male. La loro lasciò alle spalle la massa gassosa scambiata per stelle: cinque e in disordinato moto perpetuo.

Dopo le sventurate elezioni del 2018, in assenza di una maggioranza politica vera e a conclusione della più lunga stasi post-elettorale della Repubblica il capo dello Stato incaricò un governo basato su un “contratto” con punti programmatici anticostituzionali (non rilevati). Il governo Conte-Di Maio-Salvini non contò su una maggioranza politica ma semplicemente numerica. Vivacchiò un anno, succubo dell’esasperata polemica sull’approdo in Italia di clandestini che per taluni erano (del tutto impropriamente) “migranti” da assistere caritatevolmente (quasi il loro arrivo fosse pianificato dal governo stesso) per altri semplicemente “criminali” da fermare alla partenza “manu militari”: operazione possibile solo se l’Italia ancora fosse quella di Vittorio Emanuele III e di Giolitti, ma del tutto fuori portata dell’attuale, dalla influenza modestissima sulla “quarta sponda”.

Dall’imprevedibile e caotica mossa di Salvini, che nell’agosto 2019 dichiarò sfiducia nel presidente del Consiglio, nell’illusione di rapido ritorno alle urne, contro ogni previsione nacque il governo attuale, quadripartito (pentastellati, democratici, “leucociti” e italiviventi), fondato sul “vedremo”, “faremo”, “studiamo”, indeciso a tutto e sempre più boccheggiante. È Italia del rinvio.

 

A prescindere dalla forma dello Stato, monarchia (in Europa se ne contano una decina, in buona salute: Elisabetta II insegna) o repubblica, nelle democrazie parlamentari i governi sono come un edificio. Hanno fondamenta, alcuni piani e un tetto. Alla base vi è il consenso dei cittadini. I pilastri portanti sono il programma. Il tetto è la convergenza tra l’azione del governo (qualunque colore abbia, è erede del Trattato di pace del 1947) e i vincoli politici, militari ed economici dello Stato, dai quali nessuno, può prescindere se non a rischio di fratture e ritorsioni micidiali, anche per via del nostro mostruoso debito pubblico.

Orbene, l’attuale governo Conte è nato dalla somma di debolezze, senza un programma proprio, con prospettiva di breve periodo. Doveva solo varare una nuova legge elettorale: non l’ha fatto. In compenso ha sperperato e sperpera risorse, senza un piano condiviso. Il suo tetto è scoperchiato, i pilastri sono corrosi come quelli di certi viadotti e, come indicano tutti i sondaggi, l’elettorato non si riconosce affatto nel governo. L’edificio sta per crollare di schianto. Si regge su una maggioranza numerica in un Parlamento dichiarato morto e sepolto dalle Camere stesse e dal referendum confermativo dello scorso 20 settembre, quando si votò sotto schiaffo del covid-19. Non solo: quelle votazioni furono “celebrate” a scuole aperte da pochi giorni e poi chiuse in tutta fretta per la manifesta incapacità del governo di garantire l’afflusso degli allievi in sicurezza, come dovrebbe avvenire per tutti i cittadini ovunque vadano, in fabbrica come in ufficio o in giro per i fatti loro.

La sgangherata maggioranza ancora al governo non è affatto una coalizione. Per tale, infatti, s’intende un’alleanza nata da una convergenza su principi politici e con un programma organico di ampio respiro. Esattamente l’opposto dell’attuale, che senza l’inizio dell’epidemia/pandemia si sarebbe sfasciata da tempo. Nata dall’equivoco vive nell’ambiguità: fondata sul rinvio, è in tutto e per tutto inconcludente. Sfidando il ridicolo, il suo presidente Conte Giuseppe adesso ripete il mantra che non bisogna più perdere tempo, è il momento di correre e, addirittura, sarebbe “una ignominia” perdere la grande occasione di presentare all’Unione Europea le proposte per accedere al riparto delle risorse previste dal Piano per la ripresa (“Recovery”). Chi gli ha impedito di farlo sino a oggi?

Abbiamo sotto agli occhi la “task force” costituita da Sua Emergenza a inizio aprile 2020 per “favorire la ripresa delle attività produttive, anche con modelli organizzativi che garantiscano la sicurezza”, la tanto celebre quanto volatile Commissione presieduta da Vittorio Colao, di cui furono componenti di diritto l’onnipresente Domenico Arcuri (detto “Siringa”) e Angelo Borrelli, capo della protezione civile. Dopo averci ben ponzato, i diciassette taskforzisti consegnarono il “piano”. Finì tra i tanti fascicoli che, fronte inutilmente aggrottata e ciuffo al vento, Conte sfoglia a beneficio dei televedenti e accantona.

 

Verso la resa dei conti

Adesso siamo al giro di boa. Comunque agisca “il senatore di Scandicci”, i fatti sono ostinati e presenteranno il conto. La verifica non sarà tra Palazzo Chigi (col codazzo di centinaia di esperti nominati dal premier) e i partiti oggi accampati al governo, ma tra le promesse e la realtà. Gli italiani hanno dato e stanno dando una grande prova di lealtà civica. Hanno accettato e subiscono pazientemente limitazioni di libertà costituzionalmente garantite nella convinzione che valga la pena. Però ormai sono al limite della sopportazione. C’è un motivo. Benché da tempo informato della pandemia in corso, quando il 31 gennaio di quest’anno deliberò lo stato di emergenza Conte assicurò che tutto era stato previsto e preparato per fronteggiarla. Invece, va ricordato, non erano disponibili mascherine, camici e tamponi neppure per il personale sanitario. Il governo mascherò le magagne parandosi dietro gli “esperti”, i cui verbali però vennero secretati. Più passarono i mesi, meno risultò credibile. Incalzati dai decreti del presidente del Consiglio dei ministri, i famigerati Dcpm messi in discussione da tutti i costituzionalisti e ora demoliti con la sentenza del 16 dicembre emessa dal Tribunale civile di Roma, saponi solidi e liquidi a parte, gli italiani (che sono tra i popoli più puliti d’Europa) ricorsero al “fai da te”, fiduciosi che anche il governo facesse la sua parte. Ma questa ancora non si vede: è mascherata sotto la pioggia delle limitazioni imposte sino al 7 gennaio 2021.

 

Un bel dì rivedremo: ... la scuola...?

In primo luogo la scuola. Quanti docenti saranno in cattedra alla ripresa delle lezioni? A che punto sarà la riformulazione degli orari delle lezioni, con o senza doppi turni, con o senza didattica a distanza, con o senza la possibilità di fare i conti con la prevedibile inclemenza del clima invernale, che in molte regioni sconsiglia di far lezione a finestre aperte: unico modo per “sanificare” l’ambiente messo a punto dalla ministra-preside Azzolina Lucia (leggendaria per i farseschi banchi a rotelle provveduti da Arcuri Domenico)?

Da quanto al momento si sa, l’organizzazione dei trasporti è quella di un mese e mezzo fa, quando, dopo varie tergiversazioni, gli istituti medi (tranne che per la prima classe) e superiori vennero chiusi. I prefetti, sui quali la ministra il governo ha scaricato il nodo gordiano del raccordo fra afflusso degli allievi e orari delle lezioni, hanno ricevuto risposte pacate ma ferme dal personale dirigente e docente: la scuola non è solo “parcheggio orario” di scolari e allievi. È studio, è una “comunità educante” (si diceva una volta).

Se, come purtroppo prevedibile, l’inizio delle lezioni “in presenza” verrà rinviato all’11 gennaio e poi, con ogni probabilità, nuovamente sospeso per la sopravveniente “terza ondata” (calcolata su quali parametri?) per il governo sarà una disfatta senza appello. A differenza di altre vicende, lasciate correre con beneficio d’inventario, questa non potrà passare inosservata al Quirinale, il cui titolare fu ministro della Pubblica istruzione.

 

...e le urne...?

Il secondo appuntamento incombente è il rinvio del rinnovo delle amministrazioni civiche ormai in scadenza, incluse quelle di città emblematiche quali Roma, Milano, Napoli e Torino. Un sordo tam-tam annuncia da fuori campo che “qualcuno” preferisce rimandare la consultazione perché non si può votare sinché dura la pandemia. L’argomento è del tutto improponibile da parte di un governo che ha portato il Paese alle urne lo scorso 20 settembre, che promette di vaccinare entro fine 2021 e che (come tutti oggi nel mondo) non è in grado di prevedere se e quando il contagio sarà vinto o se ne andrà “per i fatti suoi”, com’è sempre accaduto per tutte le peggiori pestilenze. Si può sospendere la democrazia elettorale a tempo indeterminato? Lo Stato di Israele (ancora una volta un modello di democrazia non solo per l’Asia) a marzo va alle urne, con o senza covid-19, perché se si deve si può. L’Italia che bene o male ancora funziona, sia pure a singhiozzo e malgrado limitazioni scientificamente stolide (la chiusura di bar e ristoranti, di teatri e musei, di circoli culturali e via elencando), è in grado di garantire l’apertura dei seggi, le votazioni e lo spoglio delle schede. Sennò che paese è?

Ma questa “maggioranza” ha un obiettivo supremo: arrancare sino a quando il Capo dello Stato non può sciogliere le Camere. Il famigerato “semestre bianco” è una delle tante norme che mostrano le “rughe” della nostra Costituzione. Venne concepito settant’anni fa quale argine contro “manovre di palazzo” (ormai insistenti) miranti a insidiare la democrazia parlamentare. Lo scopo ultimo dell’attuale ammucchiata di governo è di valicare così l’intero 2021 e di eleggere da sé il futuro “inquilino del Quirinale”. Questo intento mette a nudo il modo distorto di intendere il ruolo del Presidente della Repubblica, concepito quale garante di una esigua maggioranza numerica che sopravvive al taglio dei parlamentari da queste stesse deliberato, alla riforma dei collegi elettorali e alla sua asimmetria rispetto all’elettorato, come evidenziano tutti i sondaggi.

È bene ricordare, allora, che il Capo dello Stato “rappresenta l’unità nazionale”, non un partito o una coalizione di partiti, né, tanto meno, una raccogliticcia, precaria e caotica congrega di parlamentari destinata comunque a scomparire nelle acque reflue della storia. Il Presidente della Repubblica voluto dalla Costituzione vigente ricalca la figura del Re secondo lo Statuto Albertino: è “il capo supremo dello Stato”. È il “primo magistrato”.

Ingabbiare oggi e per un altro anno ancora la vita politica del Paese in vista dell’elezione del Presidente futuro significa evidenziare l’aspetto deteriore della forma repubblicana dello Stato: l’identificazione del suo “Capo” pro tempore con una o più forze partitiche e quindi la sua subordinazione ad appetiti di parte: altro che i “poteri forti” sbandierati come spauracchio da catto-comunisti e loro soci parimenti liberticidi! Un Capo dello Stato eletto da un’artificiosa maggioranza parlamentare che, secondo tutti i sondaggi, sin dalla sua nascita non rappresenta affatto l’elettorato sarebbe divisivo anziché unificante, quale invece dev’essere. Sarebbe frutto di un colpo di Stato strisciante e ne vulnererebbe la rappresentatività, aprendo una crisi istituzionale senza precedenti. Sino a ora, anche in elezioni molto disputate il Presidente non è mai stato eletto “contro” una parte dell’elettorato ma per garantire le regole istituzionali condivise.

A fronte di questo preoccupante scenario ben venga qualunque iniziativa parlamentare capace di fermare l’attuale congrega al potere, che non è un governo vero, come mostra la penosa faccenda della urgente richiesta del Mes, il cui rinvio alle calende greche evidenzia la pochezza politica del Partito democratico.

Ecco perché, lasciando tra parentesi lo sfortunato La Palisse, è l’ora di un Baiardo, “cavaliere senza macchia e senza paura”, senza dimenticare che quando tra Quattro e Cinquecento, complici i tanti Grajano d’Asti, l’Italia cadde sotto la dominazione straniera, ebbe anch’essa i suoi campioni intrepidi: da Ettore Fieramosca, rievocato nel 1833 da Massimo d’Azeglio in La disfida di Barletta, a Giovanni dè Medici “delle Bande Nere”, a Francesco Ferrucci. Proverà un senatore toscano a emularli? Evitare la crisi di governo oggi, potrebbe generare tra un anno la crisi senza precedenti del regime costituzionale, tante volte paventata dal profetico Marco Pannella.

 

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 27/12/2020