Noveglia, dove finisce il mondo...
Veduta di Noveglia, del pittore Franco Soldati

Prima parte (di Ezio Marinoni)

Ci sono luoghi nascosti sull’Appennino, difficili da raggiungere e fuori dalle grandi strade, che celano storie meravigliose e personaggi incredibili.

Queste storie bisogna scriverle, perché non vadano perdute con la morte degli anziani, o la corsa dei giovani verso il futuro e la complicità dell’oblio del tempo, che tutto ricopre con la sua patina impalpabile.

Noveglia è uno di questi luoghi: non ci si arriva per caso; non va cercato su internet, si troverebbero pochissime notizie. È una borgata sparsa, una delle tante borgate del comune di Bardi, città che fu capitale della Signoria dei Landi, in una terra aspra dell’Appennino compresa fra Emilia, Liguria e Toscana, dove i confini non esistono.

Non è un caso che il territorio circostante si chiami Val Noveglia, la valle di un paese che non esiste.

Noveglia è una delle tante frazioni del comune di Bardi, in provincia di Parma, dove un imponente castello la storia dello Stato della nobile famiglia dei Landi.

Sono arrivato qui per la prima volta nel 2014, dopo aver letto un libro di Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”.

«La notte m’inghiotte in un villaggio di nome Noveglia, con un maledetto vento di mare che rimesta temporali. Davanti alla locanda “Geppetto”, un cuoco che gli somiglia mi accoglie così: “Benvenuto nel posto dove il mondo finisce”. Sembra un sinistro avvertimento. Invece è il prologo di un’accoglienza da re. “La gente scappa da qui e non sa cosa perde”, spiega scodellando una pizza al pesto. “Io vengo dall’inferno romagnolo e qui ho ritrovato la vita. Sa cosa le dico? Pianura mai più”. Come la balena, sembra uscito anche lui dalla storia di Collodi. E tu ti senti, fatalmente, Pinocchio».

“Qui il mondo finisce perché non si va da nessuna parte, tutte le strade finiscono”.

Lo diceva Geppetto, l’oste della Trattoria della Due Sorelle, e lo raccontava allo scrittore famoso arrivato con una Topolino, che avrebbe immortalato quella figura istrionesca e quasi mitologica in un meraviglioso libro di viaggio lento attraverso l’Italia delle montagne, quella che rischia di scomparire.

Dopo una cena sotto le stelle, al termine della quale Geppetto (che mi disse di avere 70 anni più le festività) portava il suo liquore fra i commensali, vidi le lucciole volteggiare sui prati illuminati soltanto dalla luna.

Quella sera cominciai a scrivere una storia, poi l’idea dei viaggi e della ricerca mi ha condotto altrove, sui monti della Val Maira e a Elva, sulle orme di Hans Clemer. A Noveglia devo la prima ispirazione di quella scrittura, nelle sere sotto le stelle e in un silenzio incontaminato; è un debito d’amore e di coscienza che riconosco con piacere.

Quella notte dormii al b&b Prati dei Campassi, ospite di Iginio Prati, che quest’anno si è lasciato finalmente intervistare, per raccontarmi la sua vita e i motivi che lo hanno spinto su queste colline.

Da quella prima volta, una vera emozione per me, ci sono tornato ogni due anni.

Nel mio nuovo viaggio, ho lasciato a Chiavari l’autostrada e il traffico congestionato dai camion, poi ho iniziato a risalire le strade dell’Appennino.

Intra Siestri e Chiaveri s’adima una fiumana bella, e dal suo nome lo titol del mio sangue fa cima” (Dante, Purgatorio, XIX, 100-101).

È bella la strada che conduce verso Bardi, con le dolci ondulazioni dell’Appennino e nomi di paesi che sembrano uscire dal Medioevo o da favole desuete.

Il Passo di Cento Croci è lo spartiacque naturale fra Liguria ed Emilia, la separazione fra la valle del Vara e quella del Taro. Un cippo ricorda il confine fra la Repubblica di Genova e il Ducato di Parma e Piacenza. Una tradizione orale vuole che il Passo derivi il suo nome dalle numerose croci un tempo collocate a ricordo dei viandanti assassinati dopo essere stati rapinati dai briganti che infestavano il territorio.  

E finalmente sono in Emilia!

Attraversate Tarsogno e Borgo Val di Taro mi dirigo verso Bardi, con una strada completamente in mezzo a boschi e prati. Superato da ultimo il Passo di Santa Donna, inizio la discesa che mi condurrà a Noveglia.

Luglio 2020 segna il mio quarto approdo, e le scoperte non mancano mai!

Geppetto non abita più qui, se ne è andato in punta di piedi come in una favola moderna, la trattoria ha cambiato gestione e ha mantenuto l’impronta locale.

Dopo un’altra cena sotto le stelle, ho rivisto altre lucciole volteggiare sui prati.

La Val Noveglia e le Valli del Ceno e del Taro hanno le loro leggende, come ogni zona dell’Appennino.

Una leggenda dell’Alta Val Ceno racconta che quando San Colombano e Sant’Antonio decisero “d’amore e d’accordo” di fissare il confine tra le loro Diocesi, stabilirono di alzarsi al mattino al canto del gallo e di andarsi incontro rispettivamente da Bobbio e da Piacenza.

In luogo si fossero incontrati, lì avrebbero fissato i confini del loro territorio. San Colombano lasciò il gallo senza cena e lo spruzzò d’acqua (lo dice la leggenda, a noi non resta che domandarci perché...). Sant’Antonio, invece, rimpinzò il suo gallo di frumento, aggiungendovi qualche granellino di pepe.

Il gallo di San Colombano dormì tutta la notte con la testa sotto l’ala e si svegliò tardi. Quello di Sant’Antonio si svegliò prima che facesse giorno.

I due Santi si posero in cammino e si incontrarono al fiume Trebbia, poco lontano dalla residenza di San Colombano. Qui furono stabiliti i termini di confine, con notevole vantaggio a favore del Santo piacentino.

Si racconta anche che Sant’Antonio usasse il cavallo e che San Colombano, per amor di pace, rinunciasse a denunciare la scorrettezza per non squalificare la gara.

Questa leggenda è stata trascritta dal periodico “La Giovane Montagna” del 15 febbraio 1943 e raccolta da Giuseppe Conti in una pregevole antologia.

Dalla voce di un abitante ho raccolto una storia che nessuno ha ancora scritto.

Luigi Spagna è stato il meccanico di Noveglia per decenni: classe 1943, nonostante l’età continua ad essere a disposizione dei residenti per qualunque lavoro tecnico, non nega a nessuno un attrezzo della sua officina.

Lo incontro al bar della Trattoria Val Noveglia.

Mi hanno indirizzato a lui perché Luigi Spagna è la memoria storica del luogo; mi racconta che a metà dell’Ottocento una frana ha smosso l’intera frazione di Predario (qui si pronuncia Predarìo). C’era una fontana che fungeva anche da abbeveratoio per gli animali: una mattina un abitante la vide secca e pensò ci fosse una frana in corso, a deviare il corso dell’acqua. Quell’abitante fu il primo a dare l’allarme: nello smottamento progressivo quasi tutte le case andarono distrutte, ci fu qualche morto e per sei giorni un gallo continuò a cantare, sepolto sotto le macerie di una casa. Poi tacque anche lui e il silenzio scese per sempre sulla frazione devastata.

Una seconda versione vuole che un contadino non riuscisse ad aprire la porta di casa sua la mattina; la visione della volta abbassata gli fece dubitare di una frana, e da lui la voce corsa di casa in casa.

Le leggende che si raccontavano la sera nelle aie o al calore delle stalle, oggi non vanno più di moda, soppiantate da cellulari e tablet.

A me piace ancora ricercarle, dalla diretta voce degli anziani; in Appennino hanno un sapore diverso, sfumano lentamente all’orizzonte come il sole che scende dietro l’orizzonte infinito di colline e montagne.

 

Bibliografia

Giuseppe Conti – Leggende della Val Ceno

Paolo Rumiz – La leggenda dei monti naviganti

 

@Ezio Marinoni

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Articolo pubblicato il 30/10/2020