Il Paese dei Balocchi?
La corona d'alloro deposta il 23 maggio al monumento di Vittorio Emanuele II a piazza Corvetto (Genova)

All'Italia occorre un governo che governi (di Aldo A. Mola)

Le orde nemiche...

Ma ai Visigoti di Alarico che cosa importava di Roma Eterna quando la misero a sacco nel 410 d.C.? Oro, argento, metalli preziosi, armi, bestiame… predarono quanto poteva essere asportato. Palazzi pubblici e case private furono spogliati e dati alle fiamme. Gli abitanti? Parte uccisi, parte ridotti in schiavitù. Roma doveva “pagare” perché aveva sottomesso il mondo e aveva ripetutamente sconfitto gli invasori. L'evento sconvolse anche chi rifiutava la Roma dei consoli e dei Cesari ma ricordava che lì erano andati a predicare Pietro e Paolo, perché era l'Urbe era ideale e fatale per il confronto tra la civiltà classica e la Buona Novella.

E che cosa della Roma di Alessandro VI e Leone X, di Raffaello e Michelangelo poteva mai importare ai Lanzi che nel 1527, d'intesa sottobanco con il sacro romano imperatore Carlo V, la invasero e vi bivaccarono per mesi, assediando papa Clemente VII asserragliato in Castel Sant'Angelo? Nulla. Le statue antiche e le loro recenti imitazioni, i dipinti che annunciarono il Ri-Nascimento del mondo classico proprio mentre l'Europa esplorava e conquistava il mondo che cos'erano per loro? Zero. Erano idolatria, da distruggere senza rimpianti. Il nuovo sacco di Roma raggelò gli italiani cresciuti tra Alfonso il Magnanimo e Lorenzo de' Medici, gli Sforza di Milano e i dogi di Venezia.

Del resto in “Germania”, uno spazio a differenza dell'Italia privo di chiare demarcazioni geofisiche (il Reno non equivale alle Alpi), altrettanto avveniva da anni e continuò. L'Europa intera fu flagellata da un'onda di follia, repressa duramente. Migliaia di incisioni e di dipinti attestano la ferocia di quei decenni. Ce lo ricorda l'“albero degli impiccati”. Gli anabattisti vennero sterminati da cattolici e riformati, perché costituivano pericolo di incendio permanente. La piaga andava cauterizzata.

Ma, si dirà, quelli erano nemici. Come tali si comportavano: niente prigionieri, se non per cavarne riscatti. L'Europa meritava quella sorte? Da secoli l'Occidente aveva combattuto quel che rimaneva dell'Impero romano a Bisanzio. Quando, favente il loro dio clemente e misericordioso, i turchi ottomani di Maometto II espugnarono Costantinopoli (1453) l'Europa occidentale, Italia in testa, si voltò dall'altra parte. Finse di non vedere, di non sapere, di non capire il massacro messo a segno dai conquistatori. Continuò a farlo anche dopo la Grande Guerra, quando l'antica Costantinopoli venne lasciata alla Turchia. Da lì è ripartita la rivendicazione del Califfato, che dalle coste della Libia ora guarda agli antichi domini islamici, dalla Sicilia alle “teste di ponte” sulla costa francese.

 

Ogni invasione cancella i simboli dei vinti, perché solo così la dominazione si consolida e dura. L'iconoclastia politica, la distruzione delle immagini dei sottomessi, è connaturata ai confitti tra i popoli. Però la guerra da tempo in corso contro gli emblemi dell'espansione europea è anacronistica. Fa parte dell'infantilismo oggi imperversante, della pretesa “innocenza” di chi un tempo fu vittima di avanzate altrui e addebita l'origine dei suoi mali a esploratori e a conquistatori, dalle Americhe all'Asia e all'Africa. Di fatto, i popoli afro-asiatici e amerindi cinque secoli addietro raggiunti dai grandi navigatori europei avevano alle spalle millenni di conflitti ferocissimi. Al loro confronto, nell'arte di incrudelire i Cortés e i Pizarro erano meri apprendisti. Cristoforo Colombo, le cui statue da tempo vengono decapitate e gettate nei fossi, era un'educanda.

Da decenni la storia universale, scritta dalle grandi Accademie europee tra Otto e Novecento, viene capovolta su impulso dell'Unesco, avamposto della “vendetta” antieuropea e antistatunitense. Elevare la “sofferenza” a metro discriminante della storia significa sostituire giudicare gli eventi alla luce di una presunta “morale”, basata su valori di recente conio e tuttora niente affatto universali, come mostrano le nuove frontiere dei conflitti planetari in corso.

 

Da Genova a Torino contro la memoria del Padre della Patria

Ma non questo qui preme. Merita invece attenzione l'uso dialettale imperversante in Italia della rilettura storiografica uneschiana. Tra i suoi segnali recenti, ne spiccano due. Sabato 23 maggio alcuni genovesi hanno deposto una corona d'alloro con coccarda tricolore e nastro azzurro al monumento di Vittorio Emanuele II in piazza Corvetto a Genova: omaggio al Padre della Patria nel bicentenario della nascita, anche a nome di un amico sepolto quel giorno, Arduino Repetto, mite componente della Consulta dei senatori del Regno. Deporre una corona ai piedi di quel monumento non è impresa da poco: occorre fendere il traffico e scavalcare la pesante catena che circonda l'aiuola e ostacola l'accesso. Chi la recò forse non avvertì le “autorità competenti”; ma recare fiori a un monumento come sul luogo di un evento memorabile non costituisce chissà quale trasgressione nel Paese dei lumini e delle fiaccolate. Di fatto, però, quei cittadini incapparono in un paio di sedicenti portavoce della “repubblica di Genova”, da ore in agguato e pronti a “contestare”. Per costoro Vittorio Emanuele II rimane “un nemico”, come poi dichiarato dal presidente dell’associazione “A Compagna”. A loro avviso quel monumento andrebbe addirittura rimosso e sostituito con una lapide a ricordo dei rivoltosi che nel 1849 furono vittime della repressione attuata agli ordini del generale Alfonso La Marmora. Senza entrare nel merito della vicenda (l'insorgenza repubblicana colpiva alla schiena il Regno di Sardegna vinto dagli austriaci a Novara il 23 marzo e rischiava di farne il campo di battaglia tra Vienna e la Francia come altre volte in passato; e la Gran Bretagna non sarebbe stata spettatrice), resta il fatto che di lì a poco la corona memoriale sparì. Chi la tolse?

Un altro sabato, il 7 giugno, un “Kollettivo studentesco” ha imbrattato la statua di Vittorio Emanuele II a Palazzo Civico di Torino, presenti e silenti agenti di forza pubblica. Gli autori del misfatto ritengono che la statua de Re non appartiene al loro “patrimonio culturale” e chiedono che vengano cancellate le intitolazioni di piazze, corsi e viali a “protagonisti del colonialismo italiano” quali Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.

Queste due recenti manifestazioni di settarismo oscurantista non sono affatto nuove. Da anni il nome di Vittorio Emanuele III è stato abraso anche nella sua città nativa, Napoli, con la benedizione del sindaco, De Magistris. Questo accanimento è il punto di arrivo di cent'anni di guerriglia ideologica contro l'Unità nazionale, divenuta guerra totale nel 1945-1946. Per comprenderne genesi e ripercussioni va ricordato che la Terza Italia nacque quale addizione e fusione degli Stati pre-unitari. Il Regno unitario valorizzò le tradizioni delle Cento Città, costruì le infrastrutture che mancavano, aprì scuole e ospedali dove non ve n'era neppure l'ombra. Nel 1861 metà delle ferrovie italiane erano nel regno di Sardegna. In Sicilia, Calabria, Puglie e Abruzzi-Molise non ve n'era nemmeno un chilometro. L'Italia prese sulle spalle una parte del “fardello dell'uomo bianco”, con il pieno consenso degli hegeliani di Napoli e dell'unico socialista scientifico italiano, Antonio Labriola, apprezzato da Engels e aspirante iniziando nella loggia “Rienzi” di Roma.

Anche secondo Marx, senza l'espansione planetaria le scienze e la produzione industriale sarebbero rimaste nane come avvenne nell'Europa orientale. Anche per la sua posizione geografica, a metà strada fra la Gran Bretagna e le Indie passando dal Canale di Suez (il cui 150° è stato vergognosamente ignorato), l'Italia doveva compartecipare alla colonizzazione capitanata dalle grandi potenze o rimanerne succuba come nei secoli andati. Allora, tanto valeva non aver dato vita al Regno e restare vassalli.

 

Per l'Italia dei Lumi europei

Chi si contrappose all'Unità? Non i repubblicani più lungimiranti, come Aurelio Saffi, né i radicali. I garibaldini continuarono a riconoscersi nell'insegna “Italia e Vittorio Emanuele” del loro referente, che fu sempre deputato e venne ricevuto dal Re al Quirinale. Prima o poi gli iconoclasti odierni proporranno di abbatterne le dozzine di statue (a cominciare da quella al Gianicolo, con tanto di squadra e compasso) e di cancellarne il nome da vie e piazze. Per la Nuova Italia si schierarono ovviamente i seguaci di Cavour (l'anniversario della sua morte, il 6 giugno, è passato sotto silenzio, come ha deplorato Mino Giachino), la destra storica, i seguaci di Urbano Rattazzi e i democratici. Gli avversari dell'Unità furono i clericali, gli anarchici e i proto-socialisti, nemici dell'unità d’Italia perché essa era frutto dell'Illuminismo italo-europeo fiorito a Napoli e a Milano nella seconda metà del Settecento, asceso a dirigenza nell'età franco-napoleonica e poi antesignano del Risorgimento e delle guerre per l'indipendenza, come ricordò Giosue Carducci, storico e politico ancor più che poeta.

Fu quell'Italia “occidentale” a consentire in questo dopoguerra la riscossa e il miracolo economico, grazie a personalità come Alberto Tarchiani, ambasciatore a Washington, vero garante della collocazione “a Ovest”, insieme a Randolfo Pacciardi, e a scienziati, umanisti e strateghi dell'economia, come Raffaele Mattioli e Vittorio Valletta. Che l'Italia odierna viva con la testa fra le nuvole è comprovato dall'oblio riservato da Torino proprio alla memoria di quest’ultimo.

 

...e contro

L'Italia euro-illuministica, “occidentale”, ancor oggi è il bersaglio polemico di chi contrappone il Mezzogiorno all'Italia Settentrionale (dimenticando che vi è anche la Centrale, corposissima) e continua la litania vittimistica contro i “piemontesi”, la “deportazione” dei prigionieri borbonici in mai esistiti campi di sterminio, lo sfruttamento coloniale del Sud e, naturalmente, contro “i Savoia”, mandanti dei “carnefici” responsabili della morte di almeno 500.000 abitanti delle regioni meridionali secondo un giornalista che non merita d’esser nominato.

Da decenni perdura questa stucchevole polemica che costituisce una pesante palla al piede per un'Italia sempre più in ritardo rispetto all'Europa. Gravissima è, al riguardo, la responsabilità del Partito comunista italiano, nel cui ambito i militanti provenienti dalle file dei liberali, del presto disciolto partito d'azione e del Partito nazionale fascista (un mosaico di “correnti” tenute insieme dall'esercizio del potere), dovettero accodarsi in seconda fila rispetto ai “rivoluzionari di professione”, ai quadri di formazione sovietica.

Lo si vide anche nei lunghi anni dalla sanguinosa repressione della rivoluzione in Ungheria alla fine della “primavera di Praga”, schiacciata dai carri armati sovietici (1956-1968). L'euro-comunismo era ancora lontano dall'orizzonte. Quella ideologia oscura la realtà: mentre il Regno unitario nacque per sommatoria, la repubblica collezionò sottrazioni: la limatura del confine occidentale, la tragica potatura di quello orientale, le colonie, Rodi e il Dodecanneso, che l'Italia di Vittorio Emanuele III nel 1912 aveva liberato dal giogo turco (va reso omaggio alla memoria dell'ammiraglio Giovanni Ameglio, le cui lettere a Giolitti ne attestano l'alto sentire culturale e umano).

 

Giuseppe Conte, il Boscaiolo

Se ancora oggi l'Italia balbetta e stenta a prendere coscienza della propria storia, dal Risorgimento all'attualità, lo si deve a decenni di lotta sistematica contro la “memoria”. Vi ha molto concorso la Scuola, sentina di faziosità in sfregio alla sua missione originaria. Solo facendo “tabula rasa” del passato la stragrande maggioranza dei parlamentari oggi in carica può atteggiarsi a classe dirigente, malgrado la calvizie culturale che la contraddistingue. Lasciando dov'è il ministro della Pubblica istruzione, ne è esempio insigne il presidente del Consiglio dei ministri. Solo chi ignori o finga di ignorare la montagna di Progetti e di “piani” messi a punto dal Cnel, dal Club di Roma, dalla Svimez e da una cospicua schiera di Accademie (a cominciare ovviamente dai Lincei) può oggi drappeggiarsi negli stinti panni di demiurgo degli “stati generali dell'economia”, posponendo il "fatto economico" alla "cultura", cioè quanto di più oscurantistico si possa immaginare.

Tra i molti esempi possibili della pochezza intrinseca dei pomposi messaggi di Giuseppe Conte agli italiani spicca l'annunciato proposito di voler mettere a dimora un milione di alberi. Qualcuno gli ricordi che, mal contati, l'Italia ha oggi almeno due miliardi di alberi, sicché il suo milioncino è un volo di farfalla. Forse Conte dimentica che già Benito Mussolini (come annotò Ciano nel Diario) si prefisse di imboschire fittamente l'Appennino e il Mezzogiorno per abbassarne la temperatura media annua e così costringerne gli abitanti a una condotta più austera, meno incline all'indolenza del clima mediterraneo. Sappiamo come finì: quelle regioni divennero teatro di due anni di una guerra devastante, sul modello di quella dei generali bizantini Narsete e Belisario contro gli ostrogoti.

L'Italia non ha bisogno di altri “progetti”, di altri “balocchi”, non di “menti brillanti” selezionate motu proprio dal Potere ma di un governo che governi con l'approvazione del Parlamento, espressione effettiva dell'opinione nazionale. Ed ha bisogno che i vertici dello Stato rendano finalmente pubblico omaggio ai protagonisti dell'unificazione nazionale, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II e a Vittorio Emanuele III. Diversamente quei vertici condannano se stessi all'oblio, nel quale già sono sprofondati molti capi di Stato susseguitisi al Quirinale dopo la partenza di Umberto II il 13 giugno 1946.

Aldo A. Mola

Foto di apertura: La corona d'alloro deposta il 23 maggio al monumento di Vittorio Emanuele II a piazza Corvetto (Genova) nel 200° della nascita del Padre della Patria. Venne rimossa da ignoti.

 

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Articolo pubblicato il 14/06/2020