Torino al tempo del Cholera Morbus (Parte seconda)

Di Ezio Marinoni

Vittorio Bersezio, nella sua opera “I miei tempi”, raccoglie i suoi ricordi sull’anno del colera.

Non avevo più di sei anni quando avvenne l’invasione del colera. Era da un pezzo che se ne parlava. “Verrà” dicevano gli uni. “Non verrà” affermavano gli altri. E intanto il morbo continuava regolarmente il suo cammino attraverso l’Europa, avanzandosi a tappe come farebbe un uomo in marcia; il che diede al Sue (1) l’idea di accoppiarlo al suo Juif Errant (2) scorrente il mondo colla sua maledizione divina sulle spalle. Le autorità, per impulso specialmente del Re, pigliavano gli opportuni provvedimenti; si facevano ripulire case, cortili, viuzze; si costituivano lazzaretti nei vari quartieri; si nominavano commissioni.

Intanto ecco avvenire i primi casi. E allora, come in tutte le epidemie, sorse nel popolo la scellerata, assurda idea dello avvelenamento. Infami nemici dei poveri inquinavano le acque, spargevano sulle derrate polveri mortifere; poi furono i nefandi medici medesimi che ad ognuno assalito da qualsiasi malore propinavano una bevanda assassina nella caraffina che gli facevano bere; onde passò in modo proverbiale di dire “gli han dato la carafina” per indicare che un tale era morto; e i lazzaretti non erano che ampie caverne di omicidi, per ispiccarvi più sicuramente e più tranquillamente la povera gente.

Perché poi quegli infami nemici e i nefandi medici e gli empi assassini dei lazzaretti commettessero tali orrori, nessuno lo sapeva dire: ma ci si credeva lo stesso.

Si era fatto credere da taluni furbi che il contagio si poteva tenere lontano mediante certi amuleti, i quali consistevano in tubettini contenenti un poco di mercurio, in iscampolini di pannolana, su cui ricamate parole e cifre e motti: se ne appendevano due o tre al collo e se ne pigliava una infelice sicurezza.

I più saggi si attenevano ai precetti igienici consigliati dai sanitari; alcuni pure dicevano il meglio essere di non darsene per intesi, anzi di vivere più allegramente e spassarsela più che mai; e a dire il vero ce ne moriva di questi e di quelli e degli altri.

Più concretamente, la Commissione Sanitaria sollecita quanti operano nel settore a fornire informazioni sulle terapie che ritenevano efficaci contro la malattia; il risultato è l’essere sommersa da un gran numero di proposte e suggerimenti: di medici, di personaggi eccentrici e originali, di persone volenterose di rendersi utili alla causa, di soggetto in cerca di notorietà e guadagno.

Un valido supporto si dimostrano le “Effemeridi sul cholera-morbus del Piemonte”, ebdomadario fondato dal dottor De Rolandis: per venti settimane, dal 15 agosto al 31 dicembre 1835, segue passo passo l’andamento della epidemia.

Il tasso di mortalità verificato sarà, alla fine, del 50% delle persone colpite.

 

La Chiesa torinese partecipa alla nuova crociata con le sue pubblicazioni “Medicina spirituale, ovvero pratiche divote per impetrare la divina assistenza ond’essere preservati dal Cholera-Morbus”, vendute al prezzo di 40 centesimi caduna.

 

Giò Bartolo Merenda (di Carignano) propone un letto meccanico, presentato alla Esposizione degli Oggetti dell’Industria e delle Arti tenutasi al Regio Valentino nel 1829: lo descrive come un “apparecchio fisico meccanico che viene dai medici creduto ottimo per evitare la propagazione del cholera-morbus e bene addatto a procurarne la guarigione”.

Il fiorentino Matteucci sottopone il suo progetto di un bagno a vapore; si definisce da se stesso come uno che “non ha brama di gloria, che ben conosco che invano l’aspetterei da sì tenue lavoro, ma la speranza di essere utile al mio simile”.

Il 9 settembre la Gazzetta Piemontese pubblica la ricetta del dottor Boyer di Marsiglia. “Noi la riferiamo, ben inteso, senza menomamente raccomandarla, e solo per quel tanto che vale. Aggiungeremo che la ricetta non giovò a preservare l’autore: esso a quanto dicono alcune lettere, è morto testé di colera!”.

Anche di fronte a una pandemia, lo Stato si rifiuta di accollarsene le spese, in quanto non ritiene un suo compito l’assistenza pubblica e sanitaria: queste incombenze vengono delegate ai Comuni, costretti a far ricorso alla generosità dei privati e alla Congregazioni di Carità, che dovettero “fare imprestanza” ai Comuni stessi per coprire i debiti per le spese sostenute.

È ancora Bersezio, nella già citata opera, a darci un alto esempio di volontariato, nella figura di Roberto d’Azeglio (“dimenticando”, al contempo, le due figure dei Marchesi di Barolo (4), attivissime nella filantropia).

“Le autorità fecero tutto il loro dovere: il Municipio soprattutto animato da re Carlo Alberto ce, secondo le nobili tradizioni della sua Casa, diede prova a Cuneo e a Genova del maggior coraggio: nella cittadinanza, come sempre accade, vi furono esempio di paure e di viltà ed altri di zelo, di abnegazione, di vero eroismo; e fra questi uno dei primi, anzi il primo addirittura, quello del marchese Roberto d’Azeglio.

Incontrando tal nome, non posso a meno di soffermarmi a salutarlo con riverente ossequio. Avrò occasione più in là di parlare particolarmente di questo egregio personaggio che fu uno dei più benemeriti dell’antico Piemonte, che non ottenne la fama, l’aura popolare del fratello minore, ma che, in realtà, con facoltà meno brillanti, ebbe intelligenza più vasta, carattere più fermo, erudizione più profonda, opinioni più liberali del pittore, romanziere e ministro (3).

Roberto d’Azeglio impiantò a sue spese un lazzaretto nel borgo di Po, uno dei più infestati, e lo fornì di quanto occorreva per servizio sanitario, igienico, farmaceutico, lui direttore, ispettore, vigilatore, capo infermiere, infermiere e fin becchino. A casa sua, nel maggiore inferire del morbo, non passava più che poche ore di sonno e quelle dei pasti affrettati; e ancora, di belle volte, casi urgenti gli facevano interrompere e queste e quelle.

Nel lazzaretto, vestito d’un lungo zimarrone di tela nera, scorreva da per tutto, vedeva tutto, provvedeva a tutto; non c’era servigio umile, in grato, anche ripulsivo, a cui non si prestasse: spogliare gl’infermi, ricambiarne i panni, fare fregagioni, avvoltolarli nelle coperte, comporre i cadaveri nelle bare; e tutto ciò tranquillamente, serenamente, da vero cristiano antico. Il re gli mandò lodi ufficiali; il Municipio gli decretò una medaglia d’oro; molti n’ebbero riconoscenza, non mancarono i tristi che lo ringraziarono colla calunnia”.

 

Dal 24 agosto 1835 alla prima decade di dicembre in città si contano 349 contagi e 220 decessi (si potrebbe dire pochi, se raffrontati ai 5.974 casi di Genova e ai suoi 3.219 morti).

È diffusa la sfiducia verso i medici, che curano i ricchi e mandano i poveri a morire in un lazzaretto; così come la paura degli “avvelenatori”… o le voci fantasiose che vorrebbero alti personaggi laici e religiosi a sovvenzionare gli avvelenatori stessi, pagando un prezzo per ogni morto.

In questo contesto disperato la città innalza il suo voto pubblico alla Vergine Consolata, Patrona di Torino, per implorare la liberazione dal mortale flagello...

 

Note

(1) Eugène Sue (1804-1857) scrittore francese, noto per i suoi romanzi d’appendice: “I misteri di Parigi” (1842-1843) e “L’ebreo errante” (1844-1845).

(2) Ebreo Errante - figura leggendaria, protagonista di una leggenda o racconto popolare europeo che nasce nel Basso Medioevo. Si tratterebbe di un ebreo (ignoto) che schernì Gesù durante la Passione, condannato a vagabondare per sempre sulla terra, senza riposo e senza poter morire, fino alla fine dei tempi.

(3) Massimo Taparelli, Marchese d’Azeglio (Torino, 24 ottobre 1798 – Torino, 15 gennaio 1866). Oltre ai più noti Massimo e Roberto, vi è un terzo fratello: Luigi, che sarà presbitero gesuita e cofondatore de “La Civiltà Cattolica”.

(4) Juliette Colbert di Maulévrier e il marito Carlo Ippolito Ernesto Tancredi Maria Falletti di Barolo, ultimo Marchese di Barolo.

 

Bibliografia

Vittorio Bersezio – I miei tempi – Centro Studi Piemontesi – 2001.

(L’autore di Monsù Travet scrive un libro di memorie personali, di cose viste, di esperienze vissute: insomma, un’autobiografia. Si pone nell’ottica della scrittura memorialistica, che aveva trovato nel Piemonte ottocentesco ottimi esiti, come “I Miei Ricordi” di Massimo d’Azeglio e “I miei tempi” di Angelo Brofferio).

@Ezio Marinoni

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 13/06/2020