La Paura è l’unico coagulante che fa riflettere tutto il genere umano!

Massimo Centini per Civico20News

Massimo Centini, laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino.

Ha lavorato a contratto con Università e Musei italiani e stranieri.

 

Docente di Antropologia culturale presso la Fondazione Università Popolare di Torino; insegna “Storia della criminologia” ai corsi organizzati da MUA – Movimento Universitario Altoatesino – di Bolzano.

 

Ed oggi il professore ci invia questo saggio su cui meditare attentamente per la diretta analogia con il male che quotidianamente sta mietendo vittime e pare non volersi arrestare.

 

 

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Dalle informazioni che ci sono giunte dagli storici e dai cronisti del passato, è possibile trarre importanti indicazioni sui metodi adottati dagli uomini per fronteggiare le epidemie: una tra le prime testimonianze in questo senso è costituita dalla descrizione della peste che devastò Atene nel 430 a.C., riportataci da Tucidide (460-395 a.C.) ne La guerra del Peloponneso.

 

È un’opera indicata come il primo esempio d’indagine di storiografia moderna: la cronaca fornita da Tucidide si avvale di elementi provenienti direttamente dalla vita vissuta e verificata, ma sempre sorretti da un taglio rigorosamente storico. Non vi sono condizionamenti soprannaturali e gli eventi sono solo correlati all’uomo e al suo essere nella storia.

 

La peste di Atene, che colpì la città assediata dagli spartani, provocò migliaia di vittime tra le quali Pericle, anche Tucidide si ammalò, riuscendo però a sopravvivere. Ricca e articolata la descrizione fornita dall’autore, che propone anche indicazioni sull’eziologia del morbo; prima si analizzano gli aspetti patologici e in seguito le ricadute sul piano etico. Sono informazioni che ovviamente vanno viste tenendo conto della distanza temporale, ma che presentano sorprendenti analogie sul piano sociologico con la nostra attuale situazione.

 

Dal Secondo Libro de La guerra del Peloponneso, riportiamo quindi alcuni frammenti dei capitoli dedicati all’epidemia (47-54), poiché, oltre le corrispondenze con il caso del Coronavirus, costituiscono un’utile occasione di riflessione.

 

“I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati (…)  il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci (…) A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, con l’inquinare le cisterne d’acqua piovana mediante veleno (…)

 

Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile.  (…) mentre fino a quell’attimo erano perfettamente sani, erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi. All’interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuto e raucedine.

 

In breve il male calava nel petto, con violenti attacchi di tosse (…) si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri consueti (…)  L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso di contadini alla città (…) non si attenevano più alle leggi alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva (…)

 

Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente.

Inoltre, nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini (…)

 

Verrà la carestia”.

 

Non bisogna certo essere dei filologi per comprendere che alcuni aspetti dell’umana sofferenza di ieri, atti a evidenziare la nostra fragilità di specie, sono del tutto simili a quelli di oggi:

 

-       i medici in prima linea che cadono combattendo contro la malattia

-       l’inefficacia degli oracolo (leggi talk show)

-       l’epidemia giunge da altri Paesi, spesso considerati molto diversi dai noi culturalmente e contrassegnati da    una  civiltà opposta alla nostra

-        lo spettro (quasi sempre ingiustificato) dell’origine volontaria dell’epidemia: ieri l’avvelenamento dei pozzi, oggi la creazione in laboratorio del virus

-        l’esplosione rapida e incontrollabile della malattia

-        analogie sintomatologiche della patologia

-        gli esodi verso aree ritenute più sicure

-        l’inosservanza (di una parte della popolazione) delle regole di civile convivenza durante i periodi di crisi, sia sul piano giuridico che etico

-       “ciascuno seppelliva come poteva”: non c’è molto da aggiungere

-        a seguire la “carestia”.

 

Massimo Centini

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Articolo pubblicato il 30/03/2020