L'ultima Osteria con Cucina a Torino

Si trova in via Oropa angolo via Mongrando (di Ezio Marinoni)

In questo tempo assurdo di coronavirus, sospeso fra la vita e la morte, bar e ristoranti sono chiusi per decreto legge; sfogliando appunti e fotografie mi torna in mente in quale modo ho conosciuto questo luogo unico, l’ultimo rimasto a Torino.

Avevo letto un trafiletto da qualche parte, di quelli che ti passano tra le mani e non li ritrovi più… poi il tempo passa, il lavoro e gli impegni e la famiglia, fin che un giorno transito su quell’angolo fra due vie in Vanchiglia, a pochi passi da corso Belgio. Due vetrine anonime, una sedia all’esterno attira la mia attenzione e scatta il flash nella mente.

Potrebbe essere questa, l’ultima Osteria con Cucina di Torino?

È un freddo giorno dell’autunno del 2018; è la mezza, quasi ora di pranzo, spingo timidamente la porta ed entro. Mi trovo catapultato in un locale di altri tempi, come in una canzone di barriera di Gipo Farassino. Due anziani, un uomo e una donna, al banco; altri due anziani leggono giornali, a tavoli diversi della prima sala, quasi in penombra. Si scambiano commenti, in un dialetto che non si parla più in città, mi sento in una oasi del tempo perduto.

Un calcio da tavolo è accostato ad una parete. Il telefono a gettoni è rimasto lì e sembra dimenticato, eppure funziona ancora, un cliente ci sta parlando, con la cornetta vintage appesa all’orecchio.

Mi sento in un film degli Anni Settanta a Torino, quando la polizia irrompeva nei locali e i cattivi perdevano sempre.

Dietro il banco del bar sono allineate su un ripiano le diverse misure in vetro per servire il vino.

Sulla parete di fronte all’ingresso un grande specchio rettangolare denuncia i segni del tempo, decorato con la scritta “Amaro Avalle – Torino – Telef. 41658”. Nello specchio si riflette quasi tutta la prima sala, in un gioco di rimandi che crea l’effetto di un labirinto e ricorda la giostra degli specchi ai tempi del Carnevale in piazza Vittorio. Di questa ragione sociale e dei suoi prodotti non si trovano più tracce, se non alcuni “cabaret” da bar che sono venduti come modernariato su siti specializzati.

La seconda sala ha le luci spente e i tavoli apparecchiati con tovaglie di cotone beige e tovaglioli di carta, in attesa di commensali.

Ho l’impressione di trovarmi nell’ultima sala di un museo cittadino della memoria, i cui reperti stanno per essere portati via dal tempo che fluisce.

La titolare si presenta con gentilezza tutta torinese d’antan (si chiama Carla), viene a chiedermi che cosa voglio mangiare. Tutto sommato, oggi non mi sembra importante. Il menu e l’eventuale prezzo diventano aleatori in confronto alla magia rarefatta di questo luogo, che si è conservato intatto a dispetto del trascorrere dei decenni: negli arredi, nelle tendine alle finestre, nel bancone, nella luce soffusa che aleggia.

Ordino mezzo litro di rosso, tagliolini al ragù e un secondo di vitello con patate, per scaldare la giornata e rimanere in linea con il locale e la tradizione alimentare.

“Le va di raccontarmi la storia di questo bar?”.

“Dopo le dico tutto” mi sorride e va in cucina a preparare il mio pasto.

Mi siedo ad un tavolo d’angolo nella seconda sala; scatto qualche foto, poi mi siedo e scrivo.

Quando mi porta il secondo, la signora Carla si siede accanto a me e inizia a raccontare.

“Qui non è cambiato niente, dal 1962, quando ho rilevato l’attività insieme a mio marito”.

1962, l’anno in cui sono nato io!

“È la nostra età che ci condanna, mancano le prospettive davanti a noi” mi dice con tristezza. “Qui intorno era tutto un pullulare di fabbriche e piccole attività, officine, laboratori e boite, non per niente lo hanno sempre chiamato il borgo del fumo”.

“Che cosa è cambiato da allora?”.

“È cambiato tutto. Nel cortile su via Mongrando lavorava un cromatore, il suo rumore era il sottofondo per me che cucinavo. Lei lo sa cosa faceva un cromatore?”.

Non saprei rispondere, anche se mio papà ha gestito per cinquant’anni una officina meccanica in via della Rocca, ma questa è un’altra storia.

Chiedo alla signora Carla se ci fossero altre osterie.

“In corso Belgio c’era L’Aquila, dove oggi vede un mobilificio, è stata aperta fino al 1965. In fondo a corso Tortona ha lavorato fino a pochi anni fa l’Osteria Trombetta, che richiamava nel nome un locale di piazza Hermada”.

Si stringe le mani in grembo, come a cercare fra i suoi ricordi più lontani.

“Io e mia suocera ci alternavamo in cucina e a fare la spesa. Preparavamo da mangiare per tre turni a pranzo: a mezzogiorno, all’una e alle due. Era normale riempire le sale anche la sera, alle 19,30; a volte facevamo perfino due turni a cena. Si arrivava alla fine delle giornate stravolte e soddisfatte. È andata avanti così fino agli Anni Ottanta. Poi hanno iniziato a chiudere le attività, una dopo l’altra, è stato un lento e inesorabile declino. Questo è diventato un quartiere dormitorio”.

Le domando se si ricorda i nomi di qualche attività dell’epoca.

“Mi sembra ancora di vederli... gli operai con le tute e gli impiegati con i camici blu o bianchi. Quattro file in entrata per il pasto, allora la gente mangiava e beveva e non pensava alla linea o alle diete! Vede quella botola che si apre nel bancone?”.

Giro la testa, a seguire l’indicazione della sua mano.

“Sotto c’è una cantina grande esattamente come il locale, la riempivamo di vino ogni due mesi, adesso è quasi vuota. Lei è un giornalista? Perché le interessa tanto il passato? Questo è un cimitero e un museo delle cere!”.

“Scriva i nomi che le ho detto, così non verranno dimenticati. La Schiapparelli è stata l’ultima a chiudere, era un grande stabilimento poco prima di corso Brianza, anche lì adesso c’è un condominio. La Magneti Marelli andava da qui al Po. C’era una grande autorimessa della Rai, che dava lavoro a tanti artigiani del quartiere. La Cicala & Bertinetti si occupava di trasporti, era un via vai continuo di camion e furgoni. Adesso è tutto finito, mio marito ed io siamo i reduci di una guerra civile che ha mortificato il lavoro e l’economia”.

Finisco di mangiare con un velo di tristezza davanti agli occhi.

Si è davvero combattuta una guerra: dovevano morire i vecchi mestieri, non servivano più? È cambiato tutto sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti?

Non si tornerà più indietro.

Forse qualcuno racconterà un giorno questa lunga transizione da quel erano le nostre città a quel che saranno diventate.

Non so se l’Osteria con Cucina riaprirà, in via Mongrando angolo via Oropa, dopo la lunga chiusura imposta dal Covid19. Io spero di sì, ci tornerei a mangiare e ad ascoltare altri racconti dalla dolce voce della signora Carla.

 

@Ezio Marinoni

Marzo 2020

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Articolo pubblicato il 29/03/2020