Ricordare? Sì. Ma ricordare tutto
Roma, quartiere Giuliano-Dalmata: monumento alle Vittime delle foibe

I Patrioti, i Massoni, i Re d’Italia, di Aldo A. Mola

Luglio 1943: i “patres” in campo per l’unione di Re, governo e popolo

 

Il 22 luglio 1943 sessantatré senatori del regno d’Italia “presenti a Roma” sottoscrissero una lettera al presidente della Camera Alta, Giacomo Suardo. Mentre auspicavano “che Governo e popolo si string(essero) unanimi intorno alla sacra Persona della Maestà il Re Imperatore nel proposito incrollabile di resistere a ogni costo”, chiesero che “data la gravità dell’ora” il Senato venisse convocato in seduta plenaria. L’iniziativa mirava a “parlamentarizzare” la crisi aggravata dall’invasione della Sicilia da parte degli anglo-americani e in previsione del loro sbarco sul continente. Il pesante e sanguinoso bombardamento “alleato” di Roma (19 luglio), sino a quel momento illusoriamente ritenuta immune perché coincidente anche con lo Stato della Città del Vaticano, non consentiva ulteriori ritardi. Per uscirne dovevano intervenire le Istituzioni supreme, a cominciare dai senatori, “uomini del Re”, come ricorda Aldo Pezzana nella loro storia durante e dopo il fascismo (ed. Bastogi).

 

Nelle stesse ore Luigi Federzoni, Dino Grandi e Giuseppe Bottai elaboravano l’ordine del giorno che, ulteriormente modificato da Alfredo De Marsico, fu approvato intorno alle 2 mattutine del 25 luglio dal Gran Consiglio del Fascismo. Senza mettere in discussione il ruolo politico di Mussolini, esso mirò a riportare in primo piano il Re “del 24 maggio 1915, di Peschiera e di Vittorio Veneto”. Nell’ora decisiva toccava al Capo dello Stato riprendere manifestamente in pugno le briglie del Paese. La differenza tra le due “cordate” era sostanziale: mentre i gerarchi ribadivano il sostegno al duce quale capo del governo, i senatori evocavano il “popolo” quale soggetto della storia d’Italia, fedeli alla antica divisa senatus populusquue romanus.

 

Tra i firmatari (non in ordine alfabetico ma di sottoscrizione) vi furono “patres” irriducibilmente antifascisti (come Luigi Albertini), militari (Ettore Mambretti) e parecchi “a-fascisti”, iscritti “pro forma” all’Associazione fascista dei senatori ma niente affatto “in camicia nera”. Era il caso di Ambrogio Bollati, Niccolò Pasolini dall’Onda, Edoardo Rotigliano, Mario Nomis di Cossilla, Vittorio Cini, Aurelio Drago... Se fossero stati a Roma è da ritenere che avrebbero sottoscritto molti altri, a cominciare da Luigi Einaudi e Giovanni Agnelli, Enrico Caviglia e Giuseppe Volpi di Misurata.

 

Suardo sottopose subito a Mussolini la richiesta di convocazione del Senato. Il “duce” si riservò di rispondere. Essa, però, fu superata dagli “avvenimenti successivi”, cioè dalla revoca e dal “fermo” (non “arresto”) di Mussolini e dalla sua sostituzione con Pietro Badoglio. Il 31 luglio (su carta intestata “Segreteria particolare del Duce”, corretta a macchina: “del Capo del Governo”) la richiesta dei 63 senatori fu inoltrata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Pietro Baratono. Il 3 agosto, dopo i regi decreti di scioglimento del PNF, della Milizia volontaria di sicurezza nazionale e della Camera dei fasci e delle corporazioni (un grave errore istituzionale, ancor più che politico, questo, perché paralizzò il Senato e sovraespose la Corona sino alla sua sconfitta nel referendum del 2-3 giugno 1946), Badoglio rispose al nuovo presidente del Senato, Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, che, “data la mutata situazione politica ed il tempo ormai trascorso”, non si riteneva opportuna la pubblicazione dell’“ordine del giorno” proposto dei 63 senatori. La sua nomina a capo del governo era frutto non felicissimo della terza “cordata” maturata in quei giorni per voltare pagina e uscire non solo dalla crisi militare, ma dal regime stesso: quella incardinata sul Re, deciso a sostituire comunque Mussolini con un uomo gradito agli anglo-americani per traghettare l’Italia dalla guerra all’armistizio (altra cosa da “resa senza condizioni”). Il massone Domenico Maiocco fece da tramite tra gerarchi, militari e antifascisti moderati, come Ivanoe Bonomi. L’iniziativa dei “patres” cadde nel vuoto e dalla memoria. Rimane ignoto per l’arcaica contrapposizione fascisti/antifascisti, che trascura le Istituzioni impegnate a dar corpo allo Stato d’Italia.

  

Riccardo Gigante, un senatore assassinato dai “titini”...

 

Tra i firmatari dell’appello, accanto a insigni rappresentanti della Sicilia e di terre che già vivevano nell’incubo dell’invasione nemica, spiccano i nomi dell’antico futurista Filippo Tommaso Marinetti, di Giorgio Pitacco, nativo di Pirano (Istria), senatore dal 1923, e del fiumano Riccardo Gigante, nominato senatore il 24 febbraio 1924. I tre vennero creati senatori non perché “fascisti” ma per la 20^ categoria, cioè per aver illustrata la Patria “con servizi e meriti eminenti”. Erano grandi italiani. Nel repertorio dei senatori del Regno di Gigante non si indica la data di morte. Vi risulta “disperso”. In effetti egli fu visto vivo l’ultima volta il 4 maggio 1945. Strappato da casa da una pattuglia della polizia segreta (la temibile OZNA) agli ordini del dittatore comunista jugoslavo Tito, lo stesso giorno fu assassinato a Castua (nei pressi di Fiume) e precipitato in una foiba con il maresciallo della Guardia di Finanza, Vito Butti, il vicebrigadiere dei carabinieri Alberto Diana, Nicola Marzucco e altre vittime della ferocia nazional-comunista jugoslava.

 

Dopo lunghe meticolose ricerche sin dal 1991 promosse dal presidente della Società di Studi Fiumani, Amleto Ballarini, i loro resti sono stati esumati e in parte identificati. Al termine di un iter inevitabilmente complesso e lungo, tenacemente perseguito dal presidente attuale della Società, Giovanni Stelli, e dal segretario generale, Marino Micich, il 15 febbraio 2010, presenti, fra altri, Maurizio Gasparri e Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione intitolata al Vate, quelli di Riccardo Gigante vengono tumulati al Vittoriale degli Italiani (Gardone Riviera) accanto a quelli di Gabriele d’Annunzio e di quanti gli fanno corona.

 

Perché i titini assassinarono Gigante? I primi a vergognarsi del crimine furono i loro mandanti politici (gli esecutori rimangono ignoti: erano “squadre della morte”). Un rapporto ufficiale del ministero degli Esteri di Belgrado il 12 aprile 1949 arrivò a sostenere che il senatore era stato abbattuto armi in pugno tra il 2 e il 3 maggio. In realtà furono circa 25.000 gli italiani suppliziati a freddo dall’armata jugoslava e dai suoi complici locali che schiacciarono come rullo compressore l’italianità di Zara, Pola, Fiume, dell’Istria, di Trieste, Gorizia... Furono eliminati non solo quanti erano accusati o sospettati di azioni ai danni di croati e sloveni negli anni precedenti, né solo i “fascisti” conclamati e militanti prima e dopo l’8 settembre 1943 (alcuni dei quali transitarono nel Partito comunista, perché “gli estremi si toccano”) e la riduzione di Fiume sotto controllo germanico ma, appunto, quanti costituivano la spina dorsale degli italiani.

 

...come già fatti dai comunisti italiani a Porzus

 

La tragica “mattanza” aveva avuto la sanguinosa premessa nella eliminazione dei “partigiani bianchi” da parte dei comunisti subordinati al IX Corpus jugoslavo, deciso ad annettere anche il Friuli, come insegna la cupa vicenda della “Brigata Osoppo”. Alle malghe di Porzus dal 7 febbraio 1945 i “garibaldini” agli ordini di Mario Toffanin (“Giacca”), assassinarono combattenti per la libertà di orientamento democristiano, del partito d’azione e militari senza tessere di partito. Tra loro vennero uccisi il comandante Francesco De Gregori (zio del famoso cantautore) e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. La strage di Porzus e quelle perpetrate successivamente ai danni degli italiani di Dalmazia, Fiume, Istria... (punta dell’iceberg di vicende solo in parte debitamente ricostruite e non ancora entrate nella comune conoscenza) conferma quanto Stalin disse a Milovan Gilas. L’ordine sociale dei diversi Paesi sarebbe coinciso con l’avanzata degli eserciti in guerra: da una parte l’Occidente (i diritti dell’uomo, le secolari conquiste di libertà, il ritorno da regimi autoritari alla democrazia parlamentare, fondata sul pluralismo), dall’altra il “comunismo reale”, nuovi regimi totalitari a base ideologica, ammantati da emancipazione delle classi oppresse, volano di “rivoluzioni proletarie”, meglio se con il sostegno diretto della Armata Rossa, anche in Italia a lungo sognata. Sull’Europa scese la “cortina di ferro” denunciata da Churchill, il quale, però, da Cancelliere non esitò ad appoggiare Tito a spese degli italiani.

 

Antonio Vio, patriota e massone

 

Riccardo Gigante (1881-1945) è personaggio ben noto. La Società di studi fiumani (Roma, via Cippico 10, 10143) ne ha pubblicato la rigorosa biografia scritta da Amleto Ballarini: “Quell’uomo dal fegato secco: Riccardo Gigante senatore fiumano”). Di cultura enciclopedica, archeologo appassionato, irredentista, l’11 novembre 1919 egli fu eletto all’unanimità sindaco di Fiume in successione ad Antonio Grossich. Il 29 dicembre 1920, dopo il “Natale di sangue”, trattò la cessazione delle ostilità tra Legionari dannunziani ed Esercito italiano.

 

Anche se talora convergente con i fascisti per caldeggiare l’annessione della sua città all’Italia, Gigante rimase sempre fedele a d’Annunzio. Come ricorda lo storico Giuseppe Sircana, nell’ottobre 1921 egli era convinto che Mussolini fosse politicamente finito e scrisse al Vate: “La parte migliore della nazione, i combattenti, i nazionalisti, i Fasci, i Legionari, gli italiani veri tutti mirano a te, aspettano da te una parola”. Era in sintonia con i “Sempre pronti”, le Camicie azzurre e la Lega dei Legionari Fiumani organizzata da massoni come Giacomo Treves. Il 24 marzo 1924 Vittorio Emanuele III gli conferì motu proprio la Commenda della Corona. Primo podestà di Fiume (1930) e senatore dal 1934, nel giugno 1943 chiese udienza al Re per esporgli l’angoscia della popolazione italiana in terre nuovamente contese tra germanici e slavi. Prefetto di Fiume dal 21 settembre al 29 ottobre 1943 (quando non solo la città quarnerina visse una prima stagione di orrori, che ha per emblema lo strazio di Norma Cossetto), a sua volta fu infine assassinato perché simbolo dell’italianità della sua provincia.

 

Meno nota ma altrettanto importante e la figura di Antonio Vio (Fiume, 7 maggio 1875- Bolzano, 8 maggio 1949), che merita un pur sintetico ricordo. Avvocato come suo padre, Antonio sr, egli divenne deputato di Fiume alla Dieta di Budapest in competizione con Riccardo Zanella, mentre suo zio, Francesco, era podestà di Fiume. Il 28 ottobre 1918 promosse il comitato di salute pubblica e la guardia nazionale a tutela degli italiani della città. L’indomani, partite le autorità ungheresi, fu proclamato podestà e appellò i fiumani a mantenere ordine e tranquillità per impedire che i “malintenzionati approfittassero della situazione”, cioè i fautori dell’annessione di Fiume allo stato serbo-croato-sloveno, sorgente con il placet di Francia e Stati Uniti d’America, che miravano al controllo dell’Adriatico, ovviamente ambìto dagli italiani, anche a compenso per gli enormi sacrifici sofferti per la vittoria sugli Imperi centrali.

 

Il 30 ottobre Vio insediò il Consiglio nazionale italiano di Fiume i cui Verbali sono pubblicati dalla benemerita Società di studi fiumani e proclamò l’italianità della città. A metà novembre fu ricevuto in Campidoglio a Roma e, riservatamente, dai vertici del Grande Oriente d’Italia. Come suo padre e molti notabili di Fiume, egli era dignitario della loggia “Sirius” che, dopo vent’anni dalla costituzione nelle file della Gran loggia simbolica di Ungheria, passò a quelle del GOI. Quando Vio rivendicò l’italianità di Fiume ne facevano parte Salvatore Bellasich, Guido Lado (poi venerabile della “Italia Nuova”), Andrea Ossianak, Ariosto Mini, Giuseppe Righini, Iti Bacci..., cioè l’ossatura della città, di chi a Fiume viveva e la conosceva “intus et in cute”. Senza proclamarlo, essi condividevano quanto Giolitti disse a un emissario di d’Annunzio: l’Italia non era una Eleonora Duse. Lo stesso valeva di Fiume. La sorte della Città e del Paese che aveva versato 680.000 vite di suoi uomini, sofferenze immense e indebitamento spaventoso, non era una “scena”, né una “attrice” da esaltare e poi abbandonare. Era la Storia.

 

Assolta la sua parte, Vio passò la mano a Gigante. Si appartò dalle cariche pubbliche. Riprese il cammino sul quadro a scacchi bianchi e neri. Dal 1923 divenne bersaglio del nazional-fascismo che alimentò polemiche proprio contro chi aveva chiesto e propugnato l’annessione: lui, Attilio Prodam, venerabile della “30 ottobre” (Gran Loggia d’Italia) e una lunga catena di patrioti che risaliva al Risorgimento. Scampato alla triste sorte degli assassinati e infoibati, Vio riparò in Italia come circa 300.000 profughi dalmati, fiumani, istriani, triestini e morì a Bolzano. L’inventario dei poveri averi che recato in una valigia di cartone ne attesta l’amara solitudine e l’integrità. Impone rispetto e silenzio.

 

Fiume capitale europea della cultura...

 

Mentre gli spiriti di Vio, Grossich, Prodam e di una legione di patrioti si raccolgono attorno alle spoglie di Riccardo Gigante finalmente restituite all’Italia, dobbiamo dirci sicuri che la città di Fiume vorrà svolgere al meglio l’impegnativo ruolo di Capitale europea della cultura per il 2020 e saprà ricordare tutto e tutti perché solo a quel modo si fa un passo avanti dall’Europa dei nazionalismi a quella della Fratellanza dei popoli. Ora o forse mai più. L’alternativa è la terza guerra mondiale, non solo “a tocchi” (come disse papa Francesco a Redipuglia) ma “grossa”, alimentata dalla febbre inestinguibile dell’odio.

 

Né si dica che gli orrori del 1943-1945 e seguenti sono “comprensibile rivalsa” contro atti anti-jugoslavi compiuti nel tempo da fascisti e militari italiani. Se il presente e il futuro delle genti di aree mistilingue vanno scritte accampando a pretesto il passato prossimo o remoto fatalmente si risale nei secoli e nei millenni nella stolida ricerca di chi ha colpito per primo. E si arriva all’ovvia constatazione che sul confine dell’Italia gli slavi arrivarono “dopo”. Non solo. Di sicuro, quali che siano le vicende antiche o recenti, nulla giustifica l’assassinio (fu il caso di Riccardo Gigante), l’eccidio e la pulizia etnica ai danni di civili italofoni dell’Adriatico orientale, come nel 1920 avvenne per 100.000 germanofoni dell’Alsazia e Lorena. Alzare un muro di silenzio e ricordare solo quanto fa comodo per pregiudizi ideologici e antiche rivalse vuol dire rimanere ai margini della civiltà occidentale, radicata in quella greco-latina-cristiana.  

 

Aldo A. Mola

Il Giornale del Piemonte

10.02.2020

Foto di apertura: Roma, quartiere Giuliano-Dalmata: monumento alle Vittime delle foibe (fonte Wikipedia).

Foto di Riccardo Gigante: fonte Archivio del Senato.

Foto di Antonio Vio: fonte La Ricerca, n. 27 aprile 2000.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 09/02/2020