Il ritorno a Vilfredo Pareto

In margine all’inconsistenza e pericolosità dei nostri politicanti

La meschinità e la miopia delle scelte politiche che ormai contraddistinguono, in Italia, alcuni anni a questa parte, fanno emergere, di pari passo la superficialità e l’inconsistenza dei nostri uomini di governo che, privi di esperienza, ma gonfi di presunzione, senza nemmeno porsi il problema della loro ignoranza e quindi inadeguatezza al ruolo ricoperto, con assoluta indifferenza, assumono decisioni il più delle volte negative per il cittadino di riferimento.

 

Per cercare di capire, è bene rifarsi al pensiero classico ed all’insegnamento di coloro che in tempi passati studiarono il comportamento umano, nel caso in esame le prerogative dei politici. Abbiamo così riletto quanto ha sostenuto in proposito, il grande Vilfredo Pareto.

 

Insigne sociologo e studioso della politica, Pareto elaborò la sua “teoria delle élite” tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900. Si tratta di una teoria piuttosto complessa, e chi volesse averne una conoscenza adeguata può leggere il “Trattato di sociologia generale” pubblicato nel 1916, e rimasto un classico nel suo genere.

 

Per Pareto il termine “élite” non comporta un giudizio di valore. Lo studioso non vuole cioè affermare che i suoi membri sono “i migliori”, cioè gli optimates nel senso latino del termine. No: le élite sono costituite da coloro che semplicemente, a più livelli e in più settori, detengono il potere. Di questa teoria, ciò che ci interessa oggi è  analizzato in un capitolo.

 

Asserisce Pareto senza astio, che chi governa non ha di mira il bene della collettività, ma persegue esclusivamente i propri interessi, il più importante dei quali  è quello della stabilità e permanenza nel tempo sulla poltrona.

 

Le clientele stesse in democrazia non sarebbero un fenomeno degenerativo, ma un elemento costitutivo del sistema, e avrebbero una funzione simile a quella dei vassalli nella piramide feudale. La democrazia così come la intendono i teorici (cioè come governo del popolo) non sarebbe altro, secondo Pareto, che un “pio desiderio”.

 

Se il nostro studioso, avesse oggi la possibilità di puntare lo sguardo sulle vicende italiane, troverebbe di certo la migliore conferma della propria teoria, e si congratulerebbe con se stesso.

 

Nella pur accidentata storia della democrazia italiana dalla fine della guerra in poi non si era mai visto un matrimonio politico  più anomalo e contraddittorio, e insieme più rapido e convulso, di quello tra PD e M5S. Naturalmente si dirà che si tratta di un matrimonio riparatore, imposto dalle circostanze. E che chi l’ha officiato ha agito per il bene della Nazione.

 

È un ritornello disgustoso che abbiamo sentito altre volte, e che viene sempre utile quando si tratta di mettere all’angolo chi ha vinto le elezioni, o chi le vincerebbe.

 

In verità lo spettacolo di un partito che riemerge dalle tenebre nelle quali gli elettori l’avevano relegato grazie a un altro partito che lo aveva precedentemente indicato come il male assoluto è davvero un must, che trova la sua intima motivazione per l’appunto nella folgorante asserzione paretiana: il primo compito di una élite è quello di conservare se stessa nel tempo, indefinitamente, indefettibilmente, e il resto è letteratura romantica.

 

Ed è così, che, in questa palude putrida da cui alcuni politici riemergono dopo annoso oblio e altri passano il tempo a smentire se stessi ogni cinque minuti, per contrasto assurgono a figure di gigante Carlo Calenda e per certi versi, Gianluigi Paragone, i quali invece  hanno semplicemente agito con dignità, quella dignità che i loro colleghi di partito non sanno dove stia di casa.

 

Immagini: Utet e Wikipendia

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Articolo pubblicato il 01/09/2019