C’è giustizia a questo mondo? – seconda e ultima parte

La conclusione dell’articolo, a firma Oreste Poggiolini, pubblicato sulla rivista Argo nel 1935: le idee di Piero Calamandrei

Ora sentiamo il suono di un’altra campana.

«Per trovar la giustizia, bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede».

A viso aperto difende giudici e giustizia un avvocato che insegna in una Università del Regno. È un difensore sincero, comunicativo, simpatico, non deformato dall’abito professionale, tanto che egli ritiene che l’avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé.

«Non tema l’avvocato modesto, magari appena principiante, di trovarsi di fronte come avversario uno di quei professionisti, che per la loro dottrina e per la loro eloquenza, o per la loro autorità di uomini politici, o anche per l’aria che si dànno, si sogliono chiamare «principi del foro». L’avvocato modesto, pur che sia convinto di difendere una causa giusta e sappia con semplicità e chiarezza esporre le sue ragioni, si accorgerà quasi sempre che i giudici, quanto più evidente è la sproporzione di forze fra i due contradittori, tanto più sono disposti, pur dando la loro ammirazione al più valente, a dare la loro protezione al meno dotato.

«Assai spesso i giudici, per la tendenza che ogni uomo sente a proteggere i deboli contro i forti, son tratti senza accorgersene a favorire quella parte che è difesa peggio: un difensore inesperto può fare talvolta, se trova un giudice di cuore generoso, la fortuna del suo cliente».

Chi ha formato un avvocato cosi ottimista? Piero Calamandrei, dell’Università fiorentina, dichiara di aver udito, da suo padre avvocato, negli ultimi giorni della sua vita, queste parole rasserenanti: - Le sentenze dei giudici sono sempre giuste. In cinquantadue anni di esercizio professionale non una volta ho avuto da lamentarmi della giustizia. Quando ho vinto una causa, è stato perché il mio cliente aveva ragione: quando l’ho perduta, è stato perché aveva ragione il mio avversario.

E commenta: «Ingenuità? Forse; ma solo con questa santa ingenuità l’avvocatura, da scaltro giuoco istigator di livori, può inalzarsi fino ad esser fede operante per la pace umana».

Nel suo «Elogio dei Giudici scritto da un Avvocato» Piero Calamandre afferma che egli ama il giudice, perché lo sente fatto della sua stessa carne, che lo rispetta perché sente che egli vale, almeno potenzialmente, il doppio di sé, avvocato. Nel giudice non conta l’intelligenza, la quale basta che sia normale per poter arrivare a capire; conta soprattutto la superiorità morale, la quale dev’esser tanta da far sì che il giudice possa perdonare all’avvocato di essere più intelligente di lui.

State a sentire come egli svaluta e squalifica la così detta «oratoria forense».

[…] Questo modo di ragionare, che è la negazione di quello che adoperano per parlar tra di loro le persone ragionevoli, è chiamato da qualcuno «oratoria forense». […]

Le tristezze e gli eroismi della vita dei giudici ispirano all’autore il più bello e il più nobile dei suoi capitoli.

Non v’è ufficio più di quello del giudice che esiga forte senso di virile dignità. L’indipendenza dei giudici è un duro privilegio, e chi ne gode deve avere il coraggio di restar solo con sé medesimo e con la propria coscienza, per trovare in essa la giustificazione del proprio agire.

«Il dramma del giudice è la solitudine: perché egli, che per giudicare dev’esser libero da affetti umani e posto un gradino più su dei suoi simili, raramente incontra la dolce amicizia che vuole spiriti allo stesso livello, e, se la vede che si avvicina, ha il dovere di schivarla con diffidenza, prima di doversi accorgere che la muoveva soltanto la speranza dei suoi favori, o di sentirsela rimproverare come tradimento alla sua imparzialità.

«Il dramma del giudice è la quotidiana contemplazione delle tristezze umane, che riempiono tutto il suo mondo dove non trovan posto le faccie amabili e riposanti dei fortunati che vivono in pace, ma solo le faccio dei doloranti, sconvolte dal livore del litigio o dall’avvilimento della colpa.

Ma soprattutto il dramma del giudice è l’abitudine: che, insidiosa come una malattia, lo logora e lo scoraggia fino a fargli sentire senza ribellione che il decidere dell’onore e della vita degli uomini è diventato per lui una pratica di ordinaria amministrazione».

 La stessa scrupolosità d’animo, la diffidenza che devono avere verso chi li avvicina, anche se non è per trar l’acqua al proprio molino, la preoccupazione talvolta eccessiva di tutelare l’illibatezza della propria fama, possono essere fonti, per i magistrati, di involontarie ingiustizie.

Lo ammette il Calamandrei quando afferma che l’amicizia personale tra il giudice e l’avvocato non è, contrariamente a quello che credono i profani un elemento che possa giovare al cliente. Se il giudice è scrupoloso lo assale il timore che l’amicizia possa trarlo inconsapevolmente a commettere una parzialità, ed egli può sentirsi portato per reazione ad essere ingiusto contro l’amico. «Per un giudice onesto, che deve decidere una controversia tra un amico e un indifferente, occorre assai più forza d’animo a dar ragione all’amico che a dargli torto: ci vuol più coraggio ad esser giusto rischiando di parere ingiusto, che ad essere ingiusto purché sian salve le apparenze della giustizia».

Viene in appoggio a tale conclusione l’aneddoto che il Feroci, nel libro citato prima, ricava dalle Storielle ebree del Geiger.

Un campagnolo aveva in piedi una causa di esito assai dubbio, e domandò all’avvocato se non era il caso di mandare al giudice un bel cesto di cacciagione.

- Per carità, guardatevene bene! avverti l’avvocato. Quella sarebbe proprio la strada per perdere sicuramente la causa.

Venne pubblicata a suo tempo la sentenza che dava completa vittoria al campagnolo, il quale si presentò tutto trionfante all’avvocato:

- Ha visto che il cesto di cacciagione ha fatto bene?

- Ma come, l’avete mandato?

- Sicuro, però ho messo nel cesto il biglietto di visita dell’avversario…

 

Si conclude così il datato articolo di Oreste Poggiolini. A commento si può dire che appare sottilmente “cerchiobottista”. Si apre infatti con ironia pessimista, suffragata da citazioni, soprattutto da quelle corrosive di Virgilio Feroci (1891-1943) magistrato di rango elevato prima che scrittore.

A questa parte iniziale fa però da contrappeso la lunga citazione di Piero Calamandrei (Firenze, 1889 – 1956), politico, avvocato e accademico, uno dei fondatori del Partito d'Azione, che oggi conosciamo come strenuo antifascista e cantore un po’ magniloquente della Resistenza ma che alla pubblicazione dell’articolo è noto come autore del libro “Elogio dei Giudici scritto da un Avvocato” (Firenze, 1935) dal quale sono tratti i brani citati. Il testo ripreso da Calamandrei, fin troppo lungo (ho dovuto ridurlo per ovvi motivi di spazio!) suona quindi come un correttivo alle precedenti affermazioni critiche anche se in verità propone affermazioni scontate e poco incisive che appaiono più a favore dei giudici che della Giustizia.

Feroci, che passerà in seguito per “fascista”, critica senza fare sconti. Calamandrei loda i giudici, rivolge consigli scontati ai giovani avvocati esordienti, riferisce retoriche parole del padre, svaluta l’eloquenza forense (affermazione più condivisibile). Si lancia in considerazioni sulla psicologia del giudice che evocano la proposta di test psicoattitudinali per i magistrati formulata dalla senatrice della Lega Giulia Bongiorno. Analizza le problematiche dell’amicizia del giudice con gli avvocati con considerazioni scontate ma contraddette dalla cronaca. Nessun accenno a errori giudiziari. Una fiera delle ovvietà senza spunti di critica costruttiva. Pare rendersene conto lo stesso Poggiolini che per la conclusione torna a citare Virgilio Feroci con la storiella del dono al giudice a nome dell’avversario!

 

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Articolo pubblicato il 14/08/2019