Divagazioni sui Giurati – seconda parte

La rappresentazione cinematografica delle giurie dei tribunali anglosassoni, da Margaret Rutherford a Henry Fonda

Per parlare delle giurie dei tribunali anglosassoni ricorriamo a queste affermazioni del blog “Leggendoci”: «Nei film americani che raccontano storie di processi, penali soprattutto, la scena più toccante ed emozionante è spesso quella dell'accalorata e concitata arringa finale condotta dagli avvocati che invocano, parlando direttamente ai giurati, un verdetto di innocenza nei confronti dell'imputato, loro cliente.

Tali episodi che da anni entrano nelle nostre case grazie alla produzione cinematografica hollywoodiana ed ai quali siamo familiarmente abituati potrebbero far pensare che quello sia il modo tipico di procedere in qualunque aula di tribunale, in realtà chiunque si presentasse in una delle nostre aule di giustizia scoprirebbe di non potere assistere a nulla di simile».

Come si è detto nel precedente articolo dedicato ai giurati, nel Regno d’Italia l’ordinamento giudiziario era molto simile a quello inglese e questa situazione è durata per 71 anni, dal 1860 al 1931. Troppo pochi per entrare nella memoria collettiva? Certo la letteratura, dotta e popolare, a quanto pare non ha collaborato perché ha sempre parlato dei meccanismi processuali pochissimo e spesso con approssimazione. Vediamo ad esempio come una scrittrice popolare come Carolina Invernizio (Voghera, Pavia, 1851 - Cuneo, 1916) nei suoi romanzi presenti spesso delle vere e proprie trame poliziesche che non si concludono mai con un processo e una condanna dei personaggi “cattivi”. La sua caratteristica soluzione prevede che il criminale smascherato venga punito, anche ucciso, ma in modo tale che la sua morte resti avvolta in un pietoso silenzio che ne preserva la memoria, oppure che espii la sua colpa col ritiro in convento, senza che la rivelazione turbi la nuova serenità familiare delle vittime, e con soluzioni analoghe.

È nato e si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti d’America il genere poliziesco del thriller legale o giudiziario (legal thriller) che narra vicende di fatti criminosi, indagate secondo le precise regole del sistema giudiziario in vigore in uno Stato da verosimili protagonisti del mondo giudiziario (avvocati, pubblici ministeri, giudici…). In queste trame poliziesche, il meccanismo legale viene ad assumere un ruolo basilare tanto da apparire talora una sorta di protagonista. L’autore per drammatizzare la trama non può quindi concedersi imprecisioni o adattamenti arbitrari. Il romanzo del 1987 “Presunto innocente” di Scott Turow è considerato il capostipite del legal thriller e un autore molto noto è John Grisham.

Le giurie inglesi sono state immortalate da un quadro di poco anteriore a quello del nostro Giuseppe Bottero: “The Jury” dipinto nel 1861 dal pittore di genere John Morgan (Londra, 1822 – Hastings, 1885), oggi custodito presso il Bucks County Museum in Inghilterra.

Le giurie popolari nel mondo anglosassone decidono sempre all’unanimità il verdetto di “colpevole” oppure “non colpevole”. Il mancato raggiungimento della unanimità comporta un nuovo processo. Può essere interessante a questo punto considerare come l’idea di una giuria con pareri discordanti sia entrata nel cinema. Senza voler condurre una disamina esaustiva, si può ricordare in primo luogo “Assassinio sul palcoscenico”, film inglese del 1964 diretto da George Pollock, il terzo di una serie di quattro con protagonista Miss Marple interpretata da Margaret Rutherford. Questo film è tratto dal romanzo di Agatha Christie “Fermate il boia” che ha Hercule Poirot come investigatore.

Molti personaggi e i loro comportamenti sono stati modificati rispetto alla trama originale. Così il film si apre con Miss Marple come componente di una giuria che fa annullare un processo per omicidio perché si rifiuta di votare per la colpevolezza dell’imputato anche se le prove a suo carico appaiono schiaccianti. Sarà poi la stessa Miss Marple a risolvere il caso trovando il vero colpevole.

A proposito della indispensabile unanimità delle corti inglesi, torniamo al già citato Stefano Sanpol e al suo “Quaresimale” (1864), fortemente critico nei confronti di questa istituzione. Leggiamo:

«Conferenza decimanona

IL GIURÌ

Sire!

[…] è pur funesta, barbara ed immorale la istituzione dei giudici del fatto, dei volgarmente detti giurati. Or questo mi accingo a dimostrare. […]

Voi dovete sapere che in Inghilterra le sentenze dei giurati debbono essere pronunciate alla unanimità. Fintantoché i giudici non si accordano nei loro pareri si lasciano chiusi senza bere e senza mangiare. Ora udite che cosa avvenne in Manchester l’undici agosto 1817.

In un processo di furto, undici giurati opinavano che l’accusato fosse colpevole, ed il duodecimo persisteva a sostenere che era invece innocente. Essi rimasero chiusi ventidue ore, finché in ultimo, vinti dalla fame, gli undici contrari dovettero arrendersi all’opinione favorevole del duodecimo, e l’accusato fu a pieni voti assolto».

E bravo il nostro Sanpol! A scopo polemico ha evocato una situazione paradossale che a quasi un secolo di distanza fornisce la trama dell’originale soggetto di Reginald Rose “Twelve Angry Men”, scritto nel 1954 per la TV, e la sceneggiatura di un film di successo, col titolo italiano di “La parola ai giurati” diretto nel 1957 da Sidney Lumet. La trama si apre con una giuria in camera di consiglio per giudicare un giovane accusato di parricidio: undici giurati sono colpevolisti, uno solo (interpretato da Henry Fonda) è invece persuaso dell’innocenza dell’imputato. A furia di fare, riesce a convincere gli altri undici e quello che doveva essere uno scontato verdetto di colpevolezza diventa così una assoluzione!

Henry Fonda non agisce affamando gli altri undici colleghi, come ironicamente prospettato da Stefano Sanpol, ma dal film, al di là degli ottimi caratteristi e della sapiente regia, emerge sempre la fallibilità della giustizia umana.

Gli sceneggiatori per tranquillizzare gli spettatori non hanno soltanto affacciato qualche inquietante “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ma lo presentano come veramente innocente anche con qualche forzatura. Così viene fuori che la polizia ha indagato male, che i due testimoni d’accusa hanno giurato il falso, che gli stessi giurati sono giustizialisti carichi di pregiudizi… come sosteneva un secolo prima Stefano Sanpol. La conclusione è sempre la stessa «Guaj a col ch’a s’ancaprissia / ëd volèi giusta la giustissia!».

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Articolo pubblicato il 20/08/2019