La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Notte di sabato 7 agosto 1926: scontro a fuoco alla Barriera di Orbassano

La location di questa vicenda è l’attuale largo Orbassano che al tempo presenta un aspetto piuttosto diverso: i rami delle ferrovie per Milano e per Susa-Modane non sono interrati e corrono sul piano di campagna nei pressi di enormi complessi industriali oggi sostituiti da imponenti caseggiati. Dal 1906 la fabbrica di automobili Itala è collocata tra gli attuali corsi Orbassano, Rosselli (al tempo Parigi), Racconigi, Adriatico (corrispondente alla ferrovia di Modane) e la ferrovia Torino-Milano. Sull’altro lato del corso Rosselli, sempre dal 1906, tra i rami delle ferrovie per Milano e per Susa, sorge la Diatto che nel 1917 ha preso il nome di Fiat Materiale Ferroviario.

In questa zona ancora scarsamente abitata, al di fuori dell’antica Barriera di Orbassano (l’incrocio di corso De Gasperi, già corso Orbassano, con via Fratelli Carle), nella notte di sabato 7 agosto 1926, il maresciallo Polizzi e la guardia scelta D’Amico stanno svolgendo un servizio di pattuglia. Sono usciti dal Commissariato San Secondo alle 23:00 e, dopo circa due ore, verso l’una di notte, incontrano Natale Bianchi, energico e dinamico segretario del IX Gruppo rionale fascista “Luigi Scaraglio” che conosce il maresciallo Polizzi e si unisce a loro per il giro di ispezione.

Natale Bianchi, nato a Massa Carrara il 27 luglio 1880, dopo essersi congedato dall’Arma dei Carabinieri, ha svolto varie attività. Nel 1922 è stato fondatore del Fascio di Gorla Milanese. Nel 1926 si è trasferito a Torino come capo ufficio di una società milanese e, nello stesso anno, è stato nominato segretario del Gruppo “Scaraglio”. Abita in piazzetta Juventus, nome al tempo attribuito al largo Tirreno per la vicinanza dello stadio di questa squadra, collocato all’inizio della via Tripoli, sul lato di destra guardando in direzione di piazza Santa Rita.

I due poliziotti e Natale Bianchi raggiungono il passaggio a livello della ferrovia di Modane. Qui controllano due individui che il casellante conosce come operai dell’impresa Balocco. Poi Bianchi si dirige, da solo, verso tre giovanotti fermi a una trentina di metri di distanza, con berretti da ciclista e ciascuno con la sua bicicletta al fianco. Ritorna quasi subito con uno di questi giovani, dall’accento meridionale, che porta all’occhiello della giubba il distintivo di un sindacato fascista. Bianchi si è insospettito perché il giovane si ostina a tenere la mano nella tasca destra della giacca. Bianchi gli dice di toglierla, l’altro si rifiuta, lui lo prende per il braccio, l’altro resiste.

A questo punto Bianchi chiama il maresciallo che ordina alla guardia D’Amico di perquisire il ciclista. Questo reagisce sparando un colpo di rivoltella seguito da altri colpi, esplosi dai suoi due compagni. Bianchi cade a terra, ferito a morte. D’Amico cerca di trattenere il primo sparatore, inciampa nella bicicletta e cade mentre viene leggermente ferito alla schiena. Prima che il maresciallo possa reagire, i tre inforcano le loro biciclette e scappano, inseguiti invano dai due poliziotti che fanno poi portare Bianchi al Mauriziano dove se ne constata la morte.

Le indagini sono condotte dal commissario Serra del Commissariato San Secondo. Oltre che dal ferimento della guardia, sono sicuramente stimolate dalla posizione di Natale Bianchi nel Partito Fascista di Torino. Il questore Chiaravalloti si è recato sul luogo della sparatoria domenica 8 agosto, al mattino, col prefetto e col reggente la Federazione fascista.

Gli imponenti funerali di Natale Bianchi si svolgono il 10 agosto, con partecipazione di autorità e di appartenenti al Fascio torinese, reparti della Milizia, Sindacati e Associazioni. Nello stesso giorno, “La Stampa” annuncia l’arresto dei colpevoli.

Si è subito accertato che i tre ciclisti sono meridionali. Il commissario Serra ha verificato che nella notte di sabato un gruppo di meridionali si è riunito nei paraggi per festeggiare il loro patrono San Gaetano. Tra questi vi erano tre giovani fratelli con berretti da ciclista. Sono fermati parecchi partecipanti alla festa e, dopo interrogatori e confronti, il commissario Serra si concentra sui tre fratelli Lattanzio: Pietro, Pasquale e Michele, residenti a Torino ma nativi di Trinitapoli, al tempo in provincia di Foggia e oggi di Barletta, Andria e Bari.

Pietro, di 37 anni, abita in corso Orbassano n. 190 e lavora come manovale alla Lancia. Pasquale, di 30 anni, abita in via Tripoli n. 17 ed è manovale alla Fiat. Michele, di 25 anni, è un commerciante ambulante di maglie e biancheria disoccupato che abita col fratello Pietro. Pasquale è incensurato, mentre Michele e Pietro sono già stati condannati per furto, lesioni, ingiurie e resistenza alle autorità.

Alla perquisizione delle loro case vengono trovati i berretti da ciclista, riconosciuti dai poliziotti. Ancor più rilevante è la scoperta delle armi del delitto. Poco dopo la sparatoria Michele è stato visto mentre frugava in una siepe adiacente a casa sua da un inquilino del n. 90 di corso Orbassano che ha portato i poliziotti sul posto. Nel cespuglio è stata trovata una pistola Mauser di proprietà di Michele che l’ha acquistata l’anno precedente da un armaiolo torinese e ne ha denunciato il possesso alla polizia. Nelle scannellature dell’arma si trova tabacco nero da pipa, presente anche nelle tasche della giacca di Michele.

Anche Pasquale possiede una rivoltella a tamburo a 6 colpi, che ha consegnato a un amico dove viene sequestrata, senza cartucce, pochi giorni dopo. Il cronista le definisce armi perfettamente funzionanti e di notevole potenza con cartucce senza fumo e proiettili blindati. 

Sul luogo della sparatoria sono stati trovati una cartuccia inesplosa, sebbene lievemente percossa, e un bossolo vuoto, tutti e due della Mauser.

L’autopsia di Bianchi permette di reperire un proiettile di cartuccia 5,07 velodog della rivoltella a tamburo di Pasquale.

I fratelli sono poi riconosciuti dal guardiano della ferrovia e dal maresciallo Polizzi. Dopo molte reticenze, i fratelli confessano: forniscono versioni discordanti, non esitano a scaricarsi reciprocamente addosso la responsabilità pur insistendo sul fatto che il colpo mortale è partito per sbaglio dalla rivoltella a tamburo di Pasquale nel corso della colluttazione, provocata dal fatto che Michele non voleva farsi sequestrare la Mauser che portava senza licenza.

Questa è la versione che i tre fratelli sostengono al processo, che si svolge da giovedì 10 febbraio 1927 in Corte d’Assise a Torino, anche se la rivoltella a tamburo non è di facile funzionamento.

Gli accusati insistono sul fatto di non aver attriti con Bianchi perché ne condividevano le idee politiche ed erano iscritti al sindacato. Dicono che Bianchi conosceva Pasquale e lo aveva incaricato di cancellare dai muri di alcune fabbriche delle scritte sovversive. Erano perciò mal visti e andavano armati per difesa personale.

Anche l’accusa esclude gli attriti politici: i tre volevano soltanto sfuggire all’arresto perché abusivamente armati. L’11 febbraio 1927 il sostituto procuratore generale Aroca, nella sua requisitoria sostiene la piena colpevolezza di Michele e Pasquale e abbandona l’accusa contro Pietro.

Con la sentenza di sabato 12 febbraio 1927, Pietro è assolto. Pasquale, giudicato colpevole di omicidio preterintenzionale, esclusa la sua partecipazione alla sparatoria contro la pattuglia di poliziotti, è condannato a 20 anni, 1 mese e 28 giorni di reclusione. Michele, considerato complice non necessario nel ferimento dell’appuntato D’Amico e in tentato omicidio, è condannato a 14 anni e tre mesi di reclusione.

Dopo l’interramento della ferrovia, nel luogo della tragica sparatoria, si crea un ampio piazzale che prende il nome di Largo Natale Bianchi, oggi indicato come Largo Orbassano.

Natale Bianchi, considerato l’ultimo in ordine cronologico dei Caduti per la Rivoluzione Fascista, è ricordato da un cippo marmoreo, oggi scomparso, collocato nella sera di lunedì 8 agosto 1938, opera dell’ingegner Ressa.

 

 

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Articolo pubblicato il 19/04/2019