In Cina è emergenza febbre suina: già morti 50 (o 100?) milioni di maiali. Si rischia una crisi alimentare globale.

La Cina, quindi, si è tramutata emergenzialmente – ancorché sottotraccia – nel più grande importatore di suini al mondo.

Si è fatta molta ironia sull’export di arance siciliane che il ministro Di Maio avrebbe rivendicato con orgoglio come vittoria in seno al memorandum con la Cina siglato a fine marzo, tanto da spingere Maurizio Crozza a farne uno sketch con tanto di sottolineatura su come il Dragone – in realtà – sia il secondo produttore mondiale di quell’agrume.

 

Come dire, un contentino in nome della promozione del made in Italy sbandierata come vera ragione dell’accordo, a fronte però dell’umiliiante realtà rappresentata dalla fornitura di Airbus per 30 miliardi ottenuta solo 24 ore dopo da Emmanuel Macron.

E, teme qualcuno, di chissà quali concessioni a Xi Jinping sulle nostre infrastrutture.

 

Ma c’è dell’altro e di maggior importanza per Pechino, dietro quella scelta. Nell’ambito del quadro di sicurezza alimentare già da tempo al centro della collaborazione tra le autorità dei due Paesi è stato infatti firmato il protocollo che consentirà l’accesso al mercato cinese di carne suina congelata dall’Italia. Già, perché la Cina ha un grosso problema con i suoi maiali, a loro volta piatto forte dell’alimentazione di circa un miliardo di persone.

 

E se non si troverà risposta in fretta, quel problema potrà tramutarsi nella prima, seria crisi alimentare a livello globale. Un qualcosa che in tempo di migrazioni di massa e fenomeni climatici sempre più estremi in alcune parti del mondo, nessuno può augurarsi.

 

Nel silenzio più totale, infatti, dall’agosto 2018 quando si registrarono i primi casi, la Cina ha vissuto l’esplosione di ben 116 focolai di febbre suina di origine africana, malattia non pericolosa per l’uomo ma spesso e volentieri letale per i maiali. E l’allarme non è rimasto circoscritto alla Cina ma negli ultimi mesi ha visto l’epidemia toccare le nazioni asiatiche vicine, come Cambogia e Vietnam, a loro volta altri grandi consumatori di carne di maiale.

 

E che la questione sia decisamente seria, lo conferma il fatto che in Cina esista un misuratore dell’inflazione reale che fa riferimento proprio alle variazioni del costo dei prodotti suini, ridenominato a tal fine porkflation.

 

E chi sovrintende l’economia, al di là del mito in base al quale le tracciature cinesi appaiano quantomeno creative a livello macro, guarda con occhio molto attento a quel numero, al fine di evitare pericolosi picchi di malcontento nelle fasce meno abbienti della popolazione e nelle aree rurali del Paese. E come confermato dai dati di metà marzo, i prezzi nel comparto sono saliti già oggi al massimo da 14 mesi proprio a causa della quantità di animali uccisi o destinati all’abbattimento dal diffondersi più rapido del previsto dell’epidemia di febbre africana.

 

E’ stato lo stesso governo cinese ad ammettere lo scorso gennaio che la popolazione suina aveva patito un calo del 13% su base annua, percentuale che così può dire poco ma al netto di una stima che parlava di 430 milioni di capi in tutta la nazione, ci conferma la morte di 55,9 milioni di suini circa. Ma proprio in virtù della storica poca trasparenza cinese su quanto accade nel Paese, soprattutto rispetto ad eventi negativi, la vulgata generale vede quel numero raddoppiato, raggiungendo quindi i 100 milioni di capi morti o abbattuti forzatamente.

 

La Cina, quindi, si è tramutata emergenzialmente – ancorché sottotraccia – nel più grande importatore di suini al mondo.

Ma i numeri sono impietosi, visto che stando a dati del primo trimestre di quest’anno, le scorte statunitensi sono pari a 74,3 milioni di capi. E qui subentrano i primi contraccolpi a livello internazionale, perché un calo della produzione cinese in seno alla catena dell’offerta globale potrebbe portare a scostamenti enormi nei fondamentali del settore.

 

In base a calcoli di Arlan Suderman, chief commodities analyst alla INTL FCStone, “al momento possiamo parlare di un -31% di produzione cinese nel comparto, un qualcosa che per essere pareggiato necessiterebbe tutta la produzione annuale di Canada, Usa, Messico e Brasile“.

I costi alla produzione stanno ulteriormente mettendo sotto pressione l’intero comparto agricolo Usa ma la “sindrome cinese” ha visto i futures sulla carne magra di maiale (non il bacon trattato dai fratelli Duke in Una poltrona per due, quindi) salire del 58% dal 22 febbraio scorso, arrivando a 94 dollari per libbra.

 

E anche il barometro cinese della porkflation segnala tempesta, perché la scorsa settimana il prezzo della carne di suino è salito a 14,55 yuan al chilo (2,17 dollari) contro i 12,11 yuan di due settimane prima, un incremento del 20%, come confermato da Jun Wang della China Agricultural University.

 

E nonostante i numeri siano già da allarme rosso, il peggio non pare essere passato, visto che è del 31 marzo la notizia dello scoppio di un nuovo focolaio nella provincia di Hubei, che ha ucciso nel giro di poche ore 73 degli 83 maiali infettati.

 

E come anticipato, l’emergenza si sta espandendo anche ai Paesi vicini. In Vietnam, ad esempio, i timori sono tali da aver fatto intervenire il primo ministro in persona, il quale ha annunciato “misure drastiche e senza precedenti” per bloccare il contagio: il Paese, infatti, conta 95 milioni di abitanti e quella suina pesa per circa i tre quarti di tutto il consumo di carne nazionale.

 

E anche la Cambogia ha appena comunicato il primo caso serio di epidemia, confermato solo il 3 aprile scorso dalla Direzione generale del ministero dell’Agricoltura: un allevamento di Rattanakiri, area al confine proprio con il Vietnam, ha visto uccisi dalla febbre suina africana circa 400 dei 500 maiali presenti, portando alla chiusura per quarantena dell’intera struttura.

 

Insomma, un’emergenza che vale il via libera a un inutile import di arance siciliane, se questo è il plus da pagare alla carne di maiale surgelata italiana. Ma a fare paura, al di là delle conseguenze socio-economiche che questo allarme sanitario può innescare a livello di catena alimentare globale, c’è il fatto che le alluvioni torrenziali che hanno colpito sul finire del mese di marzo lo Stato del Nebraska avrebbero portato con sé, come conseguenza ulteriore ai danni strutturali, anche la perdita di oltre un milione di vitelli, come confermato dal ministro dell’Agricoltura statunitense, Sunny Purdue, in persona.

 

Insomma, dopo quella suina, anche la carne bovina potrebbe conoscere un’impennata dei prezzi, quanto meno negli Stati Uniti in prima istanza.

E un mondo che fino alla scorsa estate sembrava in piena ripresa globale, grazie proprio a Cina e Usa, potrebbe per la prima volta conoscere una vera crisi alimentare su scala mondiale. E doversi rendere conto, giocoforza, di come certi equilibri si sostengano fra loro in maniera terribilmente fragile. E interconnessa.

 

businessinsider.com

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Articolo pubblicato il 13/04/2019