Fondazione Italia-Cina: "L'Italia al centro della Via della Seta, da protagonista"
Vincenzo Petrone, ex ambasciatore in Giappone e Brasile

Intervista al direttore generale della Fondazione Vincenzo Petrone

Intervista al direttore generale della Fondazione, che raggruppa oltre 200 aziende italiane e cinesi, Vincenzo Petrone, ex ambasciatore italiano in Giappone e Brasile. "Venezia, la città di Marco Polo che anche i cinesi amano moltissimo, sia la sede europea istituzionale di una joint venture che veda l'Italia accanto alla Cina nella gestione di porti e infrastrutture".

 

Venezia sede istituzionale europea della Via della Seta, i porti italiani al centro dei traffici del Mediterraneo, gestiti da grandi joint venture che vedano al centro le nostre grandi aziende della logistica accanto a quelle cinesi, in posizione di parità e in modo da ripartire i profitti.

 

E' la Via della Seta nella visione della Fondazione Italia-Cina, organizzazione che raggruppa oltre 200 imprese italiane e cinesi che operano nel nostro Paese, incluse alcune associazioni legate a Confindustria e alcune società pubbliche, tra le quali Invitalia.

 

"Noi abbiamo due scelte: - dice il direttore generale della Fondazione, Vincenzo Petrone, ex ambasciatore in Giappone e Brasile e già ai vertici di società leader della cantieristica navale italiana e internazionale -  o decidiamo che abbiamo paura dei cinesi, e quindi li facciamo solo scaricare nei nostri porti, e vietiamo loro di investire, una posizione assurda dalla quale non trarremo alcun vantaggio, oppure discutiamo di come implementare le nostre strutture portuali gestendo direttamente gli investimenti e mantenendo dunque il controllo".

La discussione del Memorandum of Understanding con la Cina ha sollevato moltissime preoccupazioni proprio riguardo ai porti. Lei pensa davvero che sia possibile non farci "colonizzare"?


"Noi siamo contenti che in Italia ci sia stata questa esplosione del dibattito sulla Cina in Italia, perché è servito a polarizzare l'attenzione anche del grande pubblico e della stampa sulla realtà economica della sfida cinese anche sul piano commerciale. Il pubblico in genere pensa solo agli empori cinesi, che certo solo una realtà importante: la comunità cinese italiana è costituita da 290.000 persone, tra le quali ci sono 50.000 partite Iva, il 47% delle titolari d'impresa sono donne. Ma la questione dei porti va affrontata, in tempi rapidi.

 

Il traffico commerciale tra Oriente ed Europa si realizza per il 90 per cento per via marittima,  e da quando nel 2015 c'è stato il raddoppio del Canale di Suez, le grandi navi  cinesi approdano nei porti del Mediterraneo.

 

Il porto del Pireo si è rivelato inadatto come sbocco, nonostante gli ingenti investimenti, perché poi le merci dovrebbero passare da una ferrovia che attraversi i Balcani, che non c'è e non ci sarà mai, e quindi  gli sbocchi naturali diventano Trieste e Genova, e infatti negli ultimi quattro anni il traffico delle grandi navi è aumentato del 56% in quattro anni in questi due porti. Questo che vuol dire che, senza aver mosso una paglia, il traffico commerciale tra la Cina e l'Europa sta passando per l’Italia".

 

Una condizione che ci pone in vantaggio. Perché allora c'è tutta questa preoccupazione, non riusciamo a gestire questa nuova situazione per mancanza di capitali, di indirizzo politico?


"C’è una preoccupazione suggerita dagli Stati Uniti, e un'altra indirettamente dall'Unione Europea. La prima è che gli americani hanno aperto un fronte commerciale e strategico con la Cina, e temono che i cinesi aggirino lo scontro con loro per posizionarsi in Europa, trovando una valida alternativa commerciale e tecnologica.

 

Da qui a pensare che l’Italia esca dall’orbita della Nato ce ne vuole però, nessuna persona di buon senso crede a un'ipotesi di questo tipo. Quanto all’Unione Europea, che fino all’altro ieri considerava la Cina un’opportunità commerciale, ora sta cambiando idea, perché ritiene che stia diventando un competitor nel campo delle tecnologie.

 

Eppure tre anni fa quando si discuteva se opporsi alla richiesta cinese di concedere a Pechino lo status di economia di mercato nell'Organizzazione Mondiale del Commercio fu solo l’Italia a opporsi. Adesso pochi anni dopo si sono svegliati tutti di colpo, e ritengono che la Cina si una minaccia perché le industrie cinesi, spesso ampiamente supportate dallo Stato, fanno dumping".
 

E non è vero, le industrie cinesi, che godono di vantaggi di cui le nostre non godono, non rappresentano una minaccia?


"Noi abbiamo un enorme vantaggio geoeconomico determinato dalla nostra posizione. Possiamo subire o ritrarci per paura, oppure presentarci a un tavolo con i giganti della logistica cinese con un consorzio delle nostre aziende, in grado di offrire servizi per le infrastrutture. Altrimenti, senza un consorzio, non si può competere con aziende che fatturano 80, 90, 100 miliardi di euro l'anno. E se la domanda è se disponiamo delle risorse economiche sufficienti, la risposta è sì, l'Italia nuota nella liquidità, ma mancano gli investimenti.

 

E se anche i fondi non fossero sufficienti, saremmo in grado di reperirli sul mercato. A quel punto saremo in grado di fare un'offerta valida per gli investitori, costituendo joint venture con le imprese".

 

La firma del memorandum con la Cina può essere d'aiuto in un progetto di questo tipo?


"Certo, anche se l'accordo esprime solo un’intenzione. Una volta firmato, e partito il presidente Xi, bisogna sedersi intorno a un tavolo e decidere come possiamo organizzarci, e cosa siamo in grado di offrire. I nostri porti possono diventare macchine da guerra meravigliose. E Venezia, che non è un porto che possa accogliere grandi navi, per via dei fondali bassi e della necessaria tutela della città, può però diventare la piattaforma di ingresso nella Via della Seta, la sede europea".

 

di Rosaria Amato

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Articolo pubblicato il 21/03/2019