Dispositivi per l’offesa incendiaria alleata, prima parte
Schema tecnico di uno spezzone incendiario e veduta di spezzone

di Alessandro Mella

Introduzione. - Già negli anni’ 30 si era ben compreso in tutta Europa come un nuovo conflitto su larga scala avrebbe presto interessato in modo concreto la popolazione civile. Valutazioni frutto anche dei mutamenti politici e di molti studi iniziati, financo in Italia, con l’inizio del volo e l’impiego del velivolo in ambito bellico.

Era evidente agli occhi di tutti come, nell’eventualità di una guerra, le aviazioni coinvolte avrebbero tentato in ogni modo di ostacolare le produzioni industriali del nemico con incursioni su larga scala.

Parallelamente, però, fioriva in molte menti anche il concetto di “bombardamento terroristico” per indurre le popolazioni ad invocare la resa.

Fu per questo che anche l’Italia mise in moto una massiccia propaganda a tema per opera soprattutto dell’Unione Nazionale Protezione Antiaerea. Un ente parastatale che ebbe il merito di creare, per la prima volta in Italia, una coscienza di “difesa civile” seppur con una certa dose di ingenuità.

E non fu tempo perso perché con l’ingresso in guerra, il 10 Giugno 1940, iniziò un periodo duro della storia nazionale con una serie di sofferenze notevoli per la popolazione.

Nei primi anni di guerra l’offesa aerea fu portata sull’Italia quasi solamente dalla Royal Air Force britannica data l’impossibilità di iniziativa francese limitata a sporadici casi.

Solo successivamente all’intervento in guerra degli Stati Uniti si aggiunse l’USAF con l’abitudine di attaccare di giorno a differenza degli inglesi abituali visitatori notturni.

Gli inglesi erano dei maestri della materia, cui avevano dedicato studi e tecniche.

In primo luogo essi tentavano di procurare il maggior danno possibile al nemico studiando anche il modo di obbligarlo ad impiegare massicciamente forze e mezzi con conseguente dispiego di uomini, attrezzature e carburanti.

Era, infatti, molto più complesso e dispendioso combattere focolai ed incendi i quali richiedevano l’opera di mezzi e operatori, potendo anche procurare dei feriti le cui cure richiedevano ulteriori oneri per la nazione colpita.

L’uso di ordigni incendiari assicurava inoltre la possibilità di illuminare gli obbiettivi sottoposti ad oscuramento così da favorire le seconde ondate di aerei trasportanti le bombe dirompenti. Ordigni che avevano anche il vantaggio di sorprendere i soccorritori all’opera.

Nei primi mesi del conflitto i soccorritori ebbero modo di imparare a conoscere molto bene i sistemi britannici ma non mancarono mai di operare anche sotto la pioggia di bombe o sotto i mitragliamenti dei cacciatori alleati che accompagnavano gli incursori.

In linea di massima la neutralizzazione degli spezzoni era un compito delegato ai volontari dell’Unpa od alle squadre ausiliarie per alleggerire il carico di lavoro dei vigili del fuoco.

Di questi ordigni abbiamo sentito parlare un po’ tutti dai nostri nonni. I quali, dopo la guerra, ne trovavano ovunque al punto da far fiorire la leggenda secondo la quale quelli carichi finivano per essere utilizzati…. per scaldarsi!!!

Ancora oggi, scavando nei pressi delle città, è facile imbattersi nei resti di qualche spezzone testimone di quegli anni terribili.

 

Gli spezzoni incendiari. - Il tipo di ordigno incendiario più utilizzato dagli inglesi e poi dagli americani era lo spezzone incendiario.

Leggero e facile da utilizzare, basava il suo principio sull’impiego della termite ed era in genere di forma prismatica con base esagonale.

La lunghezza era di circa 54 cm per un peso totale di circa 1740 Kg nello spezzone completo dei sui tre pezzi.

Alla base c’era il fondello costituito da un blocchetto di ferro avente la funzione, per peso, di velocizzare lo spezzone in caduta facendogli accumulare l’energia necessaria allo sfondamento delle strutture.

La parte centrale raccoglieva, all’interno, la spoletta e gli elementi combustibili. Un governale posteriore, in latta, completava l’artifizio.

La disposizione dei pezzi conferiva allo spezzone in caduta una direzione costante dovuta alla differenza di peso tra base ed estremità superiore.

Come vedremo, ciò era di grande importanza perché un impatto sul fianco o sul lato opposto impediva un corretto innesco.

La parte centrale, lunga circa 30 cm, comprendeva il dispositivo di accensione per le sostanze incendiarie contenute in un involucro esterno prodotto in una lega di magnesio (in genere l’elektron composto da 8 parti di magnesio e 2 di alluminio, lega leggera e pratica) ed una carica di polvere nera collocata nella massa termitica.

Al momento dell’impatto il percussore, munito di una punta accuminata, a seguito dell’urto improvviso scendeva battendo contro la capsula d’innesco provocandone l’accensione.

La polvere nera, quindi, si incendiava con al seguito la termite e l’involucro di magnesio.

La combustione era, in una prima fase, sfavillante e pericolosa per le persone per via delle scintille incandescenti proiettate in ogni direzione.

In seguito diventava più tranquilla e luminosa con cessazione dello scintillio ma di gran lunga più offensiva e dannosa per via delle temperature altissime raggiunte.

In genere gli spezzoni pronti all’uso avevano il fondello dipinto in rosso. La presenza di una o più bande nere sul rosso indicava che l’ordigno era munito anche di una carica esplosiva che poteva causarne l’improvvisa deflagrazione rendendolo particolarmente pericoloso per l’operatore.

Queste varianti sono state, però, di uso assai raro forse perché più complesse da realizzare e più delicate nella loro struttura.

La potenza di tale dispositivo era dovuta in gran parte al potere calorifico della termite che, surriscaldata dalla polvere nera, raggiungeva temperature elevatissime, anche fino a 3000 gradi.

La forma stessa dello spezzone gli permetteva di arrivare a terra con una forza d’urto tale da penetrare tetti, solette e strutture infilandosi dentro case, industrie e fienili con i micidiali effetti facili da immaginare.

Bastava uno spezzone per causare incendi enormi e quindi, contando che venivano lanciati a centinaia di migliaia per volta, è facile capire quale disastro rappresentassero.

Se lo spezzone si innescava in un luogo ove non potesse arrecare danno era d’uopo lasciare che si consumasse da sé, ma in caso diverso il primo modo per limitarne l’azione distruttiva era allontanarlo con un badile prima che raggiungesse il massimo della combustione (ci andavano alcuni minuti dall’innesco oltre i quali lo stesso badile si sarebbe liquefatto).

Il sistema più sicuro consisteva, però, nel ricoprire lo spezzone con un secchio di sabbia o terra che ne soffocavano parzialmente gli effetti impedendone lo sfavillare e permettendo lo sfogo dei gas dovuti alla combustione.

Era sconsigliata l’acqua poiché la stessa favoriva l’azione chimica dell’ordigno.

Con il passare dei mesi i soccorritori impararono a liquidare questi artifizi al punto che divennero quasi familiari anche alla stessa popolazione.

Palermo, Torino, Napoli, Genova, La Spezia, Catania, Messina, Milano, Bari, Alessandria, Foggia, Taranto e tante tante altre città d’Italia vissero la piaga degli spezzoni.

Alessandro Mella

Ringraziamenti.

Piero Paganoni, Giovanni Sanguineti, Domenico Occhiali e Fabio Calò.

 

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Articolo pubblicato il 24/02/2019