Se anche la Chiesa diventa positivista, il trionfo della teologia della liberazione.

Il tema dell’immigrazione è il campo decisivo, non l’unico ma certamente quello più denso di implicazioni, per la difesa dell’identità europea e delle sue singole identità nazionali.

Se da un lato, nell’attuale prospettiva immigrazionista, si vede all’opera una linea anti-identitaria, anti-tradizionalista, anti-occidentale ovvero terzomondista, tendenzialmente totalitaria di ispirazione marxista, anti-cristiana eppure paradossalmente oggi sostenuta anche da larghi settori della Chiesa, dall’altro lato si assiste a una convergenza fra linee di pensiero storicamente differenti che, per una esigenza storica del presente, si trovano affiancate nella critica delle teorie immigrazioniste.

 

Queste tendenze, ciascuna delle quali conserva intatta la peculiarità e l’autonomia che le deriva dalla propria tradizione, trovano in una concezione identitaria il punto di raccordo. Fra queste spiccano la linea del liberal-conservatorismo e quella del tradizionalismo cattolico, impegnate in uno sforzo comune. 
 

Ma sul tema dell’immigrazione si gioca anche una partita meno immediatamente visibile, che riguarda la religione in senso proprio o, in altri termini, il futuro del Cristianesimo in Europa. Detto in estrema sintesi: la Chiesa si trova oggi dinanzi a un dilemma dietro al quale si cela una possibile conseguenza drammatica. Il dilemma: permettere o restringere l’ingresso in Europa di enormi masse di africani e medio-orientali che, oltre ad essere portatori di elementi culturali non assimilabili e in parte anche anti-europei, sono nella loro stragrande maggioranza di religione musulmana?

 

La conseguenza: la forte variazione demografica farà sì che in pochi decenni ci sia una maggioranza musulmana in molti paesi europei, con le ovvie implicazioni sociali, politiche e appunto religiose. Sul piano politico ci saranno movimenti di ispirazione islamica che competeranno con i vari partiti dello schieramento tradizionale europeo; sul piano sociale si avranno rivendicazioni sempre crescenti di autonomia legislativa in aree sempre più grandi del continente; sul piano religioso il Cristianesimo diventerà religione minoritaria e, data la carica ideologica con cui i musulmani aderiscono alla loro religione, essere cristiani diventerà una forma di testimonianza personale, anche rischiosa.

 

Oggi la Chiesa dovrebbe tutelarci dall’invasione, perché se l’Occidente è sostanzialmente il frutto dell’incontro fra religiosità cristiana e laicità borghese, fra spirito della trascendenza e prassi del capitalismo, e se solo nella simbiosi fra questi elementi è possibile la sopravvivenza dell’Occidente, essi devono proteggersi a vicenda, dinanzi a minacce esterne e interne.

 

Un tempo i flussi migratori erano controllati e regolati dai vari governi nazionali, i quali decidevano quote e provenienze in base a esigenze interne e non a imposizioni esterne o estrinseche alle necessità del paese, esercitando cioè la loro normale sovranità, scegliendo immigrati compatibili con la propria identità in base appunto al principio dell’«immigrazione compatibile»: una scelta per il bene della collettività, per il bene dello Stato inteso come comunità vivente e organica di persone. Ma l’accentuarsi della volontà ideologica sottesa alla teoria dei diritti umani ha progressivamente fatto scomparire questo principio, rifiutato e stigmatizzato oggi come espressione di razzismo: l’ONU vuole il riequilibrio demografico, ma impedisce che i singoli Stati lo decidano liberamente. E’ chiaro che si tratta di una posizione strumentale, finalizzata alla sostituzione.

 

In questo modo la questione migratoria viene trattata non solo in base a un’ideologia terzomondista, ma pure secondo un riduzionismo biologistico mascherato da egualitarismo solidale, che tradisce una concezione materialistica dell’uomo e un metodo positivistico di considerarlo. Incuranti delle differenze culturali, che sono l’aspetto più evidente delle differenze spirituali della vita, gli ideologi dell’ONU pianificano e appiattiscono, sradicano e rimescolano, come se stessero combinando elementi chimici o spostando oggetti inerti. Trascurare queste diversità significa considerare l’uomo solo come entità numerica, oggettivandolo e de-individualizzandolo, negandogli quella differenza spirituale che ha formato i popoli, le loro religioni, le nazioni, la storia stessa.

 

Ora, al di là della giusta esortazione all’accoglienza dei profughi che fuggono dalla guerra, un’accoglienza che noi tutti sosteniamo convintamente, perché Papa Bergoglio è uno dei principali sostenitori dell’immigrazionismo positivistico targato ONU? Perché fornisce legittimazione religiosa e morale alla sostituzione? Perché nonostante la giusta critica all’uso indiscriminato della tecnica aderisce a un progetto palesemente tecnicistico?

 

Tutto ha inizio l’8 luglio del 2013, con il discorso di Lampedusa, nel quale, denunciando l’indifferenza verso i migranti che ha causato i morti in mare, il Papa chiedeva «perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi», e al tempo stesso associava costoro a «Erode, che ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi» (Omelia in occasione della visita a Lampedusa, 8 luglio 2013). Una durezza politica inusitata, che abbiamo visto spesso riaffiorare nei cinque anni successivi, fino alle recentissime dichiarazioni sulla «paura che rende pazzi» e che porta a costruire appunto «i muri della paura». In effetti, i migranti sono la preoccupazione storica ed etica principale del Pontefice, come dimostra la recentissima pubblicazione che raccoglie tutti i suoi interventi (fino al 2017) su questo tema. 

 

A luglio 2018 viene ribadito l’impegno a favore dell’accoglienza, «un impegno di fedeltà e di retto giudizio che ci auguriamo di portare avanti assieme ai governanti della terra e alle persone di buona volontà. Per questo seguiamo con attenzione il lavoro della comunità internazionale per rispondere alle sfide poste dalle migrazioni contemporanee» (Omelia in occasione della Santa Messa per i migranti, 6 luglio 2018). Viene qui evocato il Global Compact, per la cui adozione Papa Bergoglio si è speso pubblicamente e ufficialmente in varie occasioni, fino ad un discorso di poche settimane fa: «la Santa Sede si è adoperata attivamente nei negoziati e per l’adozione dei due Global Compacts sui Rifugiati e sulla Migrazione sicura, ordinata e regolare. In particolare, il Patto sulle migrazioni costituisce un importante passo avanti per la comunità internazionale che, nell’ambito delle Nazioni Unite, affronta per la prima volta a livello multilaterale il tema in un documento di rilievo.

 

Nonostante la non-obbligatorietà giuridica di questi documenti e l’assenza di vari Governi alla recente Conferenza delle Nazioni Unite a Marrakech, i due Compacts saranno importanti punti di riferimento per l’impegno politico e per l’azione concreta di organizzazioni internazionali, legislatori e politici, come pure per coloro che sono impegnati per una gestione più responsabile, coordinata e sicura delle situazioni che riguardano i rifugiati e i migranti a vario titolo» (Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2019).

 

Questa sintonia è stata sancita dalla presenza a Marrakech del Segretario di Stato cardinale Parolin, il quale, dichiarando che «poter migrare è un diritto», mentre «la non accoglienza non è un diritto» (Intervista a RaiNews24 del 13 dicembre 2019), ha fissato un punto di non ritorno, ergendo la Chiesa a garante religioso e spirituale della politica migratoria dell’ONU, giudice delle decisioni politiche dei singoli Stati in merito all’accoglienza.

 

Una convergenza ovvia, poiché l’humus politico da cui è sorto il Global Compact e quello in cui si sviluppano le odierne posizioni della Chiesa sui migranti presentano uno strato di contiguità stretta. A comporre infatti la frattura tra la laicità secolarizzata per molti versi ostile al Cristianesimo dell’ideologia-ONU e l’ineliminabile religiosità della visione bergogliana è la teologia della liberazione, mediatrice occulta ma indiscutibile fra queste due posizioni, perché in essa il marxismo è presente in modo coessenziale ed è stato rivitalizzato in forma nuova. 

 

E’ proprio qui infatti che si mostra la saldatura fra la Chiesa di Bergoglio e l’ONU: entrambe tendono a sostituire l’uomo occidentale con un’umanità nuova, frutto del mescolamento di popoli e dell’indebolimento dell’Occidente tradizionale, esattamente come volevano i teologi della liberazione, che teorizzavano «un’altra forma di vita, completamente diversa da quella che oggi viene imposta», alla ricerca «di un’utopia universalizzabile storicamente», che porti alla nascita di un «uomo nuovo» che possa «sostituire l’uomo vecchio, che domina come ideale della cosiddetta civiltà cristiana, nordatlantica e occidentale» (I. Ellacuria, Utopia e profetismo, in Mysterium LiberationisI concetti fondamentali della teologia della liberazione, trad. it. Roma 1992, p. 359).

 

L’esortazione papale ad «accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti» senza riserve, non investe infatti solo la dimensione etico-religiosa, ma si colloca nel quadro sociale, politico e perfino istituzionale, elaborando proposte concrete e operative (Messaggio per la Giornata Mondiale del migrante 2018, 15 agosto 2017).

 

Se tuttavia, come accade nel Global Compact, ridurre le persone a masse e spostare queste ultime come se fossero pedine è positivistico, lo è anche una prospettiva che equipara una singola persona o piccoli gruppi di persone a grandi masse, perché nell’intenzione di accogliere l’altro si finisce  per accogliere tutti, infrangendo i diritti personali stessi e imponendo l’accoglienza forzata, lasciando trasparire una concezione materialistica, in cui la differenza ovvero l’identità spirituale viene affossata esattamente come nel marxismo vengono abolite con la violenza le differenze sociali e soprattutto individuali.

 

Bergoglio sembra smarcarsi da questa identificazione, ripetendo spesso che «i migranti non sono pedine sullo scacchiere dell’umanità» (Messaggio per la Giornata mondiale del migrante 2014, 5 agosto 2013), ma la volontà immigratoria che egli manifesta è propria di una concezione naturalistica che riduce lo spirito dei popoli (il Volksgeist) e delle singole persone ad agglomerato biologico, come sostiene la dottrina marxista dell’internazionalismo.

 

Se materialistica è l’impostazione del Global Compact su princìpi non negoziabili come il concetto di persona e la difesa della vita, l’adesione della Chiesa a questo patto è un compromesso in perdita, spiegabile con la priorità che Papa Bergoglio assegna alla lotta politica, a sua volta fondata sulla preesistente adesione al materialismo storico che la teologia della liberazione, abbandonando la metafisica e abbracciando l’azione sociale, aveva concretizzato.

 

Il Pontefice condanna il materialismo consumistico delle società capitalistiche, e tuttavia sostiene una forma di materialismo, quello appunto scientistico (la tecnoscienza delle migrazioni adottata dall’ONU), laicista e secolarizzante, che è infinitamente più deleterio del primo, schierando così la Chiesa su posizioni per essa sostanzialmente inedite, insostenibili e pericolose.

 

Se la Chiesa diventa positivista, ad essere minacciato infatti è lo spirito, e se lo spirito viene disgregato, a subirne le conseguenze sarà il mondo stesso, Chiesa inclusa.

 

Renato Cristin

corrispondenzaromana.it

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 04/02/2019