Il Presepe e quell’iconoclastia del laicismo anticristiano che ignora l’arte e lo spirito.

"Civico 20" ospita un articolo di Aldo Vitale.

«Nella fredda stagione, in luoghi avvezzi all’afa/ più che al gelo, e a piatte distese più che ai monti,/ nacque un bambino per salvare il mondo, in una grotta;/ turbinava il vento, come può solo nel deserto d’inverno./ Enorme tutto gli sembrava; il seno della madre, le nari/ del bue fumanti di vapore, i re Magi; quei doni/ da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre fin lì portati./ Il bimbo era un punto solamente. E un punto era la stella./ Con gran circospezione, senza neppure un battito/ di ciglia, tra rade nubi, di lontano, dalle profondità/ del Cosmo, giusto dall’altro estremo, la stella fissava/ nella grotta il bimbo nella greppia. Di un padre era lo sguardo»: così il celebre poeta russo Iosif Brodskij ha “dipinto” in versi la sua visione del Presepe, quello stesso Presepe che, come oramai puntualmente e tristemente avviene ogni anno, molti dichiarano di voler cancellare per non recare offesa a quella parte crescente della società italiana che non è cristiana, come per esempio i musulmani, o che è anti-cristiana, come per esempio gli atei.

Si moltiplicano, infatti, le maestre che preferiscono cancellare la parola “Gesù” dalle canzoni natalizie per elementari o i docenti che decidono di non autorizzare gli studenti alla composizione del tradizionale Presepe di classe.

Proprio alle porte delle festività natalizie, in una febbrile e turbinante isteria generale volta a rimuovere crocifissi, censurare canzoni e nascondere presepi, da parte di pochi, ma agguerriti e rumorosi “gran sacerdoti” del laicismo contemporaneo si mette in scena la tragicomica ondata di persecuzione iconoclasta ai danni dei simboli cristiani. Sarebbe interessante sapere, tuttavia, con quali rocamboleschi metodi tutti costoro, spesso insegnanti di ogni ordine e grado, riescano a giustificare una ventina di giorni di assenza dal proprio posto di lavoro e, soprattutto, come possano dar conto della sospensione delle attività scolastiche ai propri allievi senza spiegare che le vacanze natalizie tali sono proprio per celebrare la nascita del Dio cristiano incarnato nella persona di Gesù Cristo.

Se simili iniziative dovessero essere prese sul serio, come ci si augura che si attendano i loro stessi promotori, allora non ci si dovrebbe limitare alla banale modifica di qualche canzoncina natalizia, ma alla ben più impegnativa ristrutturazione degli stessi programmi scolastici dato che l’intera cultura occidentale è intrisa della presenza dei simboli cristiani come il crocifisso o la natività.

Senza troppa fatica si pensi proprio alle arti figurative come la pittura in cui il tema della crocifissione campeggia quasi universalmente nelle opere di tutti i grandi autori occidentali, sia in quelli più tradizionali come per esempio Antonello da Messina, Beato angelico, Cimabue, Donatello, Giotto, Guido Reni, Lorenzo Lotto, Masaccio, Tintoretto, Michelangelo, Piero della Francesca, Raffaello, sia in quelli più moderni e perfino non esattamente rientranti nell’alveo di una cultura prettamente cattolica, come per esempio Renato Guttuso, Salvador Dalì, o Marc Chagall.

Il tema della natività, inoltre, è stato oggetto di riflessione artistica, in senso pittorico, tra gli altri, da parte di Durer, Mantegna, Rubens, Caravaggio, Botticelli, Tiziano, e in senso letterario da parte di poeti e scrittori quali Saba, Turoldo, Grande, Pirandello, Tasso, Manzoni, Gozzano, D’Annunzio, Leopardi, Pascoli, Quasimodo, Jacopone da Todi. Occorre chiedersi, dunque, se i solerti docenti che intendono rimuovere crocifissi e presepi siano altresì disposti ad eliminare tutti i suddetti uomini d’arte e d’intelletto dai loro programmi di studio arrecando, con una tale omissione, un grave vulnus culturale e umano ai propri allievi, ma dimostrandosi coerenti con le proprie premesse e con la serietà presunta delle proprie teorie. Tuttavia, alcuni interrogativi si impongono quasi naturalmente.

Perché dare importanza al Presepe? Perché è necessario difenderlo? Perché è necessario che non sia censurato? Lungi dall’eseguire una semplicistica interpretazione di difesa aprioristica delle tradizioni popolari – messa spesso in atto da un conservatorismo ideologico non attento al problema della realtà e alla realtà del problema –, occorre precisare subito che proprio il Presepe, e dunque la conservazione dello stesso ne costituisce una garanzia, esprime – diversamente da quanto ritengono i suoi detrattori – il momento apicale di concretizzazione del principio di tolleranza e all’un tempo di affezione alla razionalità.

Ben oltre, infatti, l’elevato aspetto artistico che spesso si accompagna alla rappresentazione della natività, e che per quanto rilevante ed apprezzabile ed ugualmente degno di essere tutelato pur sempre secondario, è necessario considerare che proprio nel Presepe, anche se espressione del Cristianesimo (come se fosse una colpa!), si raffigurano quei valori di moralità che erroneamente vengono attribuiti ad altre fenomenologie o tradizioni di pensiero non cristiane o addirittura al Cristianesimo risolutamente opposte.

Era la notte di Natale del 1223 quando San Francesco d’Assisi diede ufficialmente inizio alla tradizione, comunque già affermata e ben più risalente di almeno duecento anni, di rappresentare la natività del Figlio di Dio, poiché in quella rappresentazione si riviveva un momento, cioè la nascita del Cristo, la cui assoluta efficacia si sarebbe estesa nei secoli addietro e venturi.

Dinnanzi alla mangiatoia, infatti, la storia come mero aggregato insensato di eventi si ferma per cedere il passo al riconoscimento della propria anima, riscoprendo il proprio spirito. Davanti alla mangiatoia l’uomo incontra per la prima volta se stesso nel Figlio di Dio, compiendosi quel miracolo tutto cristiano della redenzione, del dono (il secondo dopo la creazione) di Dio per l’uomo, di quel Dio che non abbandona l’uomo al cieco destino della propria creaturalità, ma che all’uomo si appropinqua incarnandosi, rendendo possibile il ricongiungimento dell’uomo con la propria stessa origine e con la propria stessa destinazione, cioè con la propria sostanza, con la dimensione spirituale e meta-terrena, solo in apparenza irrimediabilmente perduta dopo l’aspra cacciata dall’eden e in seguito alla severa condanna terrestre.

La rappresentazione della natività significa proprio non solo ricostruire tutto ciò, ma rivivere plasticamente il momento della seconda opportunità concessa all’umanità.

Oltre a ciò nel Presepe si esplicita la possibilità di integrazione delle culture, delle classi sociali, della varietà umana ontologicamente accomunata dall’essere tutti figli e fratelli del Figlio di Dio, fuori da ogni logica ingenuamente socialista di una unità sociale ottenuta con la rivoluzione e con la violenza, lungi da ogni ipocrita e mistificante tentazione di una massificazione multiculturale. Nel Presepe, dinanzi alla mangiatoia, si ritrovano, infatti, pastori e sovrani, civili e militari, contadini e artigiani, donne e uomini, bambini e anziani: tutti integri nella loro sana e naturale diversità terrena, ma uniti tutti nella loro comune prospettiva creaturale.

Il coacervo di valori di cui è foriero il Presepe, dunque, dovrebbe essere riconosciuto valido anche per chi si appella agli schemi della nuda ragione, quella scissa dalla fede per intendersi, ragione che, tuttavia, viene tradita proprio da coloro che la invocano contro il Presepe senza comprenderne l’importanza culturale, umana e spirituale. La eliminazione del Presepe è, allora, all’un tempo un grave atto di intolleranza e di stoltezza non soltanto nei confronti della religione cristiana – paradosso ulteriore nell’era dell’onnipresente richiamo alla tolleranza –, quanto specialmente nei confronti della stessa ragione.

In questo senso, e in conclusione, risuonano ancora vivide le parole di Papa Francesco nell’Udienza generale dello scorso 27 dicembre 2017: «Ai nostri tempi, specialmente in Europa, assistiamo a una specie di “snaturamento” del Natale: in nome di un falso rispetto che non è cristiano, che spesso nasconde la volontà di emarginare la fede, si elimina dalla festa ogni riferimento alla nascita di Gesù. Ma in realtà questo avvenimento è l’unico vero Natale! Senza Gesù non c’è Natale; c’è un’altra festa, ma non il Natale. E se al centro c’è Lui, allora anche tutto il contorno, cioè le luci, i suoni, le varie tradizioni locali, compresi i cibi caratteristici, tutto concorre a creare l’atmosfera della festa, ma con Gesù al centro. Se togliamo Lui, la luce si spegne e tutto diventa finto, apparente».

loccidentale.it

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 08/12/2018