Torino. Cosa succede in Fca tre mesi dopo Marchionne

I mercati brindano per la vendita di Magneti Marelli e i dividendi annunciati. Ma, da Pomigliano a Mirafiori, gli stabilimenti italiani sono fermi e sempre più osservatori giudicano inevitabile lo "spezzatino" del gruppo. Il punto

Per una curiosa coincidenza, proprio negli stessi giorni in cui cadono i primi tre mesi dalla morte del Ceo di Fca Sergio Marchionne, l'Italia e il governo Conte devono fare i conti con l'eredità lasciata dal manager italo-canadese nel nostro Paese e non si annunciano buone notizie per i lavoratori.

Sergio Marchionne è morto a Ginevra il 25 luglio. Tre mesi e un giorno dopo, il 26 ottobre, a Roma è convocato allo Sviluppo economico il tavolo per gli ammortizzatori sociali a Pomigliano.

Il 29 è previsto un nuovo incontro (manca solo la convocazione ufficiale) tra i manager di Magneti Marelli e i sindacati. Il giorno dopo, infine, il 30 ottobre, mentre a Londra verrà presentata agli analisti la trimestrale di Fca, a Roma il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha convocato i rappresentanti dei lavoratori per parlare del futuro dell'automotive in Italia.

Sarà in quell'occasione che Fca farà planare su Roma qualche indicazione in più sui modelli che dovrebbero rilanciare gli stabilimenti italiani?

In molti se lo augurano, ma in realtà l'azienda ha convocato i sindacati per discutere gli investimenti nelle fabbriche tricolore solo un mese dopo, il 29 novembre.

Ma la situazione sta diventando drammatica: a Pomigliano, dove la cassa integrazione copre 2.000 esuberi teorici per 4.600 lavoratori, lo stabilimento è chiuso dal 22 al 31 ottobre. Cassa integrazione anche alle presse di Mirafiori per cinque giorni a novembre (dopo le 10 di ottobre e i fermi nel vicino stabilimento di Grugliasco) e all'Alfa di Cassino per 4 mila lavoratori dal 25 ottobre al 3 novembre.

E se Pomigliano è lo stabilimento dove la situazione è più preoccupante, come vedremo, i fermi al polo torinese e a Cassino, dove si produce per i marchi "forti" del gruppo - Alfa Romeo e Maserati -, dicono che qualcosa non sta andando come dovrebbe-

La notizia della vendita al fondo americano Kkr - che controlla la giapponese Calsonic Kansei - di Magneti Marelli per 6,2 miliardi di euro ha creato euforia in Borsa: a Wall Street lunedì 22 ottobre il titolo ha guadagnato il 3,74%. Il balzo è dovuto sicuramente al maggior prezzo strappato dal gruppo rispetto alle prime offerte, ma pesa molto anche la convinzione per cui parte dell'incasso finirà nelle casse degli azionisti attraverso un maxi-dividendo, come promesso lo scorso primo giugno da Sergio Marchionne. Stiamo parlando di due miliardi di euro.

Altri fondi potrebbe essere riutilizzati per il riacquisto di azioni proprie per sostenere le quotazioni. «Quello che vorremmo sapere», spiega Michele De Palma, responsabile automotive della Fiom, «è quante risorse andranno invece al rilancio degli stabilimenti italiani».

È la stessa domanda che, sul Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, hanno posto ai manager di Fca due attenti osservatori come Giuseppe Berta e Francesco Zirpoli. «La domanda», scrive quest'ultimo, «quindi è: i 6,2 miliardi di euro frutto della vendita della maggiore (e per certi versi unica) multinazionale della componentistica italiana, saranno re-investiti per sviluppare nuovi modelli e tecnologie? In che misura questi investimenti rafforzeranno la posizione di Fca in Italia?».

Nel piano industriale ereditato da Sergio Marchionne e che il nuovo Ceo Mike Manley ha confermato, l'ibrido e l'elettrico giocano un ruolo chiave con la previsione di 9 miliardi di investimenti.

E tuttavia lo scorporo di Magneti Marelli è un brutto colpo in questo senso. «Tutti sappiamo», spiega De Palma, «che in provincia di Bari, a Modugno, era stata avviata la produzione dei componenti elettronici per motori ibridi destinati ai nuovi Ram 1500 (i nuovi pick up lanciati sul mercato a metà 2018, ndr) e che quello stabilimento è in prima linea per l'elettrico».

Il comunicato di Fca dopo l'ufficializzazione della vendita di Magneti Marelli parla di un'intesa tra i nuovi proprietari e il gruppo italo-americano per una fornitura pluriennale, anche a garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali, ma nulla dice di possibili sinergie per lo sviluppo dell'elettrico.

Dal governo attualmente in carica, pur sovranista quando si parla ad esempio di Alitalia, non si sono alzate voci critiche sulla vendita a un gruppo straniero di un'azienda strategica per l'industria dell'automotive nazionale.

L'ex ministro Carlo Calenda ha parlato di «una pessima notizia». Secondo De Palma, tuttavia, «il tema era già sul tavolo con il governo precedente, noi l'avevamo segnalato. Quello che mi chiedo è perché si parla sempre di cordate italiane quando si tratta di salvare aziende decotte e invece non si interviene per una realtà che potrebbe essere la pietra angolare del rilancio dell'automotive in Italia».

E che potrebbe essere decisiva nel settore del motore elettrico ma anche dell'automatizzazione.

Il ritardo di Fca è conclamato e i primi passi molto timidi: secondo una fonte anonima, il Jeep Renegade ibrido annunciato da John Elkann e in vendita dal 2020 sarà prodotto solo in 5 mila unità. Mentre le altre case automobilistiche sfornano modelli nuovi, subito in versione ibrida, Fca pensa di applicare la tecnologia verde alla 500X a Melfi e la 500L in Serbia, che però sono auto già esistenti e quindi meno appetibili sul mercato. Poi arriveranno le novità, certo, ma è proprio questa incertezza sul futuro il principale motivo di preoccupazione tra i sindacati italiani.

E qui torniamo ancora una volta al punto di partenza: dopo l'annuncio dei nuovi modelli lo scorso primo giugno per le fabbriche italiane, nulla si sa di dove questi verranno prodotti e da quando. La situazione più grave è a Pomigliano: qui a settembre scade la cassa integrazione che, formalmente, è stata riconosciuta per ristrutturazione, «mentre a noi risulta che non sia stato ancora avvitato un bullone», sostiene De Palma.

Con le attuali regole, non ci possono essere dopo settembre altri ammortizzatori sociali. Si vocifera di un mini Suv assegnato a Pomigliano, ma per mettere su una nuova linea di produzione servono 12-18 mesi e in Campania (come altrove) nulla è partito.

Il rischio che il governo debba intervenire con un piano di sostegno all'occupazione eccezionale è tutt'altro che irreale e questo spiegherebbe il nervosismo del governo nei confronti di Fca. Poco si sa anche del nuovo Suv di dimensioni simili al Levante che dovrebbe essere assegnato a Mirafiori e della 500 elettrica.

«Anche supponendo che tutti i modelli vengano annunciati a brevissimo e lanciati tutti assieme», racconta un osservatore a Lettera43.it, «il rischio di cannibalizzazione tra modelli è evidente e al Lingotto dovrebbero ben saperlo visto che è quello che è successo già una volta con Fiat Idea e la Lancia Musa e anni dopo con la Renegade e la 500X».

Il destino dell'Italia, però, è solo un tassello di un disegno più ampio. Cosa farà Fca nei prossimi anni? Se guardiamo ai volumi, oggi il gruppo è ben sotto quei 6-7 milioni di auto prodotte ogni anno che Marchionne aveva indicato come soglia di sopravvivenza.

Allo stesso tempo, è un'azienda molto più snella e "semplice" di quanto era qualche anno fa: lo spin off di Ferrari e Cnh assieme alla vendita adesso di Magneti Marelli la rendono «meno complessa in caso di trattative per operazioni di fusione», ha scritto Bloomberg. Il nuovo piano industriale, ha più volte dichiarato il nuovo Ceo Mike Manley, è fatto perché Fca vada avanti da sola, ma l'ipotesi di una vendita e di un disimpegno di Exor è discussa tra analisti e osservatori, compreso la variante di una vendita "per pezzi".

«Non ci sono segnali espliciti da parte dell'azionista in questo senso, ma è chiaro che dopo i tentativi falliti di vendita in blocco a un altro gruppo, Gm in particolare, la strada dello spezzatino è un'opzione almeno teoricamente possibile», spiega a Lettera43.it Francesco Zirpoli. «Non è tanto una questione di volumi ma di avere un azionista di riferimento disposto a investire in un settore come quello dell'auto dove i ritorni sono minori che in altri settori». Lo spezzatino, così, diventa un'opzione possibile, tanto più se si pensa che un potenziale compratore, ad esempio cinese, in corsa per le attività europee di Fca, difficilmente con Trump alla Casa Bianca avrebbe accesso a un marchio come Jeep.

Su un altro fronte, l'interesse dei tedeschi per Alfa Romeo è noto da tempo, così come il fatto che Marchionne abbia sempre dichiarato che la casa del biscione «non è in vendita».

E, tuttavia, il rilancio del marchio non sta andando come previsto: lo stesso Marchionne ammise che la concorrenza dei tedeschi era stata sottovalutata. I primi due modelli della piattaforma Giorgio, la Giulia prima e il Suv Stelvio adesso, non hanno finora dato i risultati sperati (soprattutto la Giulia è arrivata sul mercato tardi per problemi di ingegnerizzazione).

Ai piani alti del Lingotto si discute dei costi di un (ri)lancio del marchio che, per adesso, è ancora solo sulla carta. Come ricordava su Lettera43.it Giuseppe Berta a luglio, «nel piano industriale 2018-2022 Alfa Romeo ha un obiettivo di 400 mila vetture vendute all'anno.

Oggi però siamo a 150 mila, di cui 100 mila in Europa e 20-25 mila in America. Siamo lontanissimi, quindi, dagli obiettivi.

Se guardiamo le quote in Italia, Mercedes e Bmw sono un po' sopra il 3%, Alfa al 2,5%. Se vuoi diventare un marchio di lusso forte, devi iniziare da casa tua». Dopo che Magneti Marelli è finita in mani giapponesi, non è fantascienza pensare che, un giorno, possa esserci un futuro straniero in un altro grande gruppo anche per altri marchi e attività oggi nella pancia di Fca.

Samuele Cafasso

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Articolo pubblicato il 26/10/2018