Numeri da Re

di Alessandro Mella

Il 2016, fu l’anno del centocinquantesimo anniversario della Terza Guerra d’Indipendenza italiana. La guerra all’Austria, mossa dal giovane stato italiano per restituire le Venezie ai confini naturali e nazionali, conflitto lungamente atteso e sospirato dal prode Giuseppe Garibaldi.

Poche le celebrazioni, per lo più sotto tono per interessi politici contrastanti e miopi, pochi i prodotti della storiografia più o meno ufficiale. I pochi cenni e riferimenti sono stati per lo più quelli degli storici maggiormente illuminati e non avvelenati da redditizi revisionismi.

Fu un conflitto sfortunato con esiti e vicende contrastanti ma, malgrado le sfortune e qualche errore noti, con un profondo significato. Gli Italiani seguitavano a costruire il proprio futuro ed il proprio destino sotto le insegne tricolori innalzate tanti anni prima dal Carlo Alberto, re di Sardegna.

Vittorio Emanuele II, che non aveva grande acume strategico ma un coraggio da leone da tutti riconosciuto e spinto quasi all’incoscienza, volle i suoi figli con sé in quella lotta. Il principe Umberto (il futuro re buono) ed il principe Amedeo (duca d’Aosta e poi, per un breve periodo, re di Spagna) si esposero al fuoco ed alle sciabolate nemiche con non meno ardimento.

Generali e politici fecero notare al re quanto fosse imprudente lasciarli andare avanti in modo così pericoloso, il sovrano non volle sentir ragioni. La sua Casa doveva contribuire attivamente al percorso unificante la nazione italiana ed i principi dovevano fare la propria parte e, se la storia l’avesse chiesto, non mancare di versare il proprio sangue al pari dell’ultimo fantaccino.

Da anni il Piemonte ospitava i patrioti che fuggivano dagli stati preunitari ove venivano perseguitati dalle polizie asburgiche, borboniche o papaline. Casa Savoia aveva scelto, ormai da tempo, di rischiare tutto per una causa cui ormai l’Europa guardava con interesse e malcelato sospetto. E ciò avveniva già nel 1859, ai tempi della precedente guerra d’indipendenza, quando il re non aveva perso un’ulteriore occasione per dimostrare il proprio carattere, tutt’altro che imbelle, dicendo a Napoleone III:

«Io desidero rimanere vostro amico, ma non accetto imposizioni da nessuno. Del mio onore rispondo solo a Dio e al mio popolo. Nessuno farà mai abbassare la testa a un Savoia abituato a portarla alta da ottocentocinquant’anni» (1).

Oggi si dimentica, troppo spesso, quel ruolo che permise, unitamente all’apostolato di Giuseppe Mazzini, alla sciabola di Garibaldi ed alla lungimiranza di Cavour, di portare l’Italia ad un’unità sospirata da decenni. Tale unità, purtroppo, pur condotta con serietà d’intenti non risolse tutti i mali dei molti popoli che vivevano sulla penisola e la costruzione dello stato risentì della prematura scomparsa dello stesso conte di Cavour.

Tra le accuse mosse al Risorgimento, unico grande collante nazionale che ciecamente è oggetto di sciocche ricostruzioni o meglio demolizioni, è proprio di aver piemontesizzato lo stato. Cavour guardava più lontano:

«Cavour, (…) aveva già elaborato un vasto progetto di decentramento, ma la morte repentina che l’aveva colto di sorpresa nel pieno della sua attività gli aveva impedito di sottoporre all’approvazione della Camera questo suo fondamentale disegno riformatore. (…) Ma, a questo punto, vale tuttavia la pena di riassumere il progetto federalista di ispirazione cavouriana che il bolognese Marco Minghetti cercò invano di fare approvare dal Parlamento, perché merita una riflessione. Esso prevedeva quanto segue: Eliminazione del sistema centralizzato e concessione ampi poteri agli enti locali. Creazione di un ordinamento nazionale su base elettiva che consenta di conservare le tradizioni e i costumi delle popolazioni locali. A ogni Grande Provincia (leggi Regione) dovrà spettare il potere legislativo e l’autonomia finanziaria per quanto riguarda i lavori pubblici, l’istruzione, la sanità, le opere pie e l’agricoltura. Le Grandi Provincie e i Comuni dovranno ampliare le loro competenze e le rispettive basi elettorali estendendo il diritto di voto a tutti i cittadini iscritti da almeno sei anni nei ruoli delle imposte senza escludere gli analfabeti. I Sindaci non saranno più di nomina regia, ma dovranno essere nominati dal consiglio comunale eletto. Allo Stato spetteranno soltanto la politica estera, la difesa, i grandi servizi di unità nazionale (ferrovie, poste, telegrafi e porti), nonché un’azione di vigilanza e di controllo sull’operato degli enti locali. Considerato il tempo in cui questo progetto venne presentato, si deve ammettere che si trattava di un programma indiscutibilmente moderno e persino avveniristico, il che conferma la lucida preveggenza del conte di Cavour» (2)

Gli eventi della grande storia offuscarono la memoria di molti e la cesura operata nel 1946 non giovò. La svolta repubblicana, infatti, invece di garantire continuità storica con il lungo percorso unificante volle rifondarsi una memoria propria recidendo le radici nazionali e, soprattutto, conducendo per decenni politiche fallimentari che furono terreno fertile per malcontenti al nord ma soprattutto in quel sud in cui il fiume carsico di denaro inviato fu mal investito creando disillusioni e recidendo speranze.

Il malcontento sfocia, oggi, nei revisionismi.

Argomento tipico di chi vuol male alla storia italiana è la scelta fatta da Vittorio Emanuele II al momento della sua proclamazione, nel marzo 1861, a re d’Italia. Scelse di mantenere il “II” e questo, per alcuni, è il peccato originale. Spesso gli si paragona le scelte fatte dai Borbone di Napoli, in particolare da Ferdinando IV di Borbone il quale, dopo il Congresso di Vienna, unite le corone di Napoli e Sicilia in quella delle Due Sicilie, mutò nome in Ferdinando I.

Scelta legittima per sancire la nascita di un nuovo corso, più grandioso ma anche desideroso di relegare al passato la memoria degli intellettuali impiccati nel 1799, delle figure e fughe non proprio eroiche nel periodo napoleonico e via discorrendo. Scelta di comunicazione, incensare il nuovo corso per annebbiare il vecchio agli occhi dei propri sudditi. A quel tempo la comunicazione politica passava anche da questi machiavellismi. Ma nel 1734 Carlo III di Borbone, sconfitti gli Asburgo a Bitonto, non mantenne il “III” in continuità con Carlo II d’Angiò? Così fu, la storia ma soprattutto chi la scrive, son spesso animati da grandi contradizioni e vuoti di memoria (3).

Dunque il re di Sardegna, diventando re d’Italia, non si fece fautore a sua volta di un taglio netto con il passato dei suoi predecessori. Le ragioni furono molteplici ma alla fine molto semplici e del tutto palesi. Qualcuno sostenne che non volesse essere confuso, proclamandosi “I”, con il suo avo omonimo. Ne aveva ragione? L’antenato non era per nulla deprecabile.

Vittorio Emanuele I era asceso al trono sardo mentre i Savoia si trovavano in esilio coatto a Cagliari essendo Torino annessa al Primo Impero di Napoleone I. Aveva contribuito alla sconfitta del grande corso con le sue modeste forze, aveva ottenuto l’annessione al Piemonte dell’ambito sbocco sul mediterraneo con la Liguria e, messo al muro dalla rivoluzione piemontese del 1821, non volendo sparare sui suoi sudditi ma nemmeno tradire la parola data al Congresso del 1815, scelse di abdicare:

«Era stato, come quasi tutti i Savoia, un re malinconico ma, che si era onestamente proposto il bene dei suoi sudditi, o per meglio dire quello ch'egli riteneva fosse il loro bene, e ora se n'andava appunto per non fargli del male o scatenando contro una repressione violenta o ingannandoli con una Costituzione che non avrebbe voluto mantenere. Alla bassezza cui era sceso Ferdinando di fingere di largirla per poi affidarne la revoca all'Austria, si rifiutò di arrivare» (4).

Vittorio Emanuele I, poi, aveva pur sempre anche la grande gloria d’aver fondato la benemerita arma dei Reali Carabinieri. Non vi era, dunque, ragione alcuna per rinnegarlo, per prenderne le distanze. Nemmeno il timore di essere confuso con lui nei testi di storia percorse il “padre della patria”. Aveva tanti difetti ma non era certamente un vanesio e per sobrietà primeggiava.

Tutte le sue biografie documentate, concordano su queste sue sfumature di carattere. La ragione, dunque, è la più semplice e proprio per questo ai più sfugge. Suo padre aveva iniziato le guerre risorgimentali, aveva perduto tutto ed era andato a morire di dolore in Portogallo spegnendosi ad Oporto. I suoi figli avevano conosciuto le palle di moschetto austriache, facendosi onore, ed Amedeo era rimasto perfino ferito. La sua Casa si era messa in gioco nel nome d’Italia e per l’Italia. Poteva aver commesso errori ed ingenuità? Forse sì ma certo i Savoia erano stati il collante, avevano mediato tra le diverse anime del Risorgimento e Vittorio Emanuele con tutte dialogava, cercava la concordia anche tra anime così inconciliabili come Cavour e Garibaldi. Proprio quest’ultimo, repubblicano e mazziniano financo socialista, non esitò a combattere alle parole “Italia e Vittorio Emanuele” riconoscendo nel Regno Sardo l’unico che potesse sostenere il percorso risorgimentale.

L’unico che la Costituzione l’aveva concessa, con Carlo Alberto lo Statuto Albertino, e non l’aveva revocata nemmeno nei momenti peggiori. L’unico regno i cui sovrani si erano esposti al fuoco nemico a differenza di tutti gli altri che, per inclinazione alla pigrizia o disinteresse o cecità, si erano ben guardati dal mettersi in gioco, destandosi tardivamente dal proprio torpore solo quando i propri troni erano ormai irrimediabilmente perduti e spazzati via dalla storia e dal cammino dei popoli. Vittorio Emanuele, quindi, aveva pieno diritto a riaffermare di fronte all’Italia ed alla storia che il grande passo di quel 1861 era stato compiuto grazie anche al contributo della propria casa.

Era il compito, il ruolo e il traguardo raggiunto da una dinastia millenaria che, proprio con i fatti del ’66, pur dopo l’alloro non fermò il proprio ardore. Ecco perché le polemiche sui “numeri da Re” sono inutili e pretestuose in un’Italia che invece di cercare concordia ed unità si perde, ancora, in devastanti campanilismi secolari. Consumati con una birra in mano allo stadio o farneticando sulla rete e sui social. Lo diceva Umberto Eco con altre parole ma la sostanza, disgraziatamente, resta.

Alessandro Mella

Nota (1) - Arrigo Petacco, Il Regno del Nord, 2001.

Nota (2) - Arrigo Petacco, Roma o morte, 2011.

Nota (3) - Del resto, anche Vittorio Amedeo II quando fu proclamato re di Sicilia prima e Sardegna poi, primo Savoia a cingere la corona regia dopo quella ducale, mantenne la propria originale numerazione. Legittima prosecuzione, poiché nuovi regni e nuovi titoli erano pur sempre conquiste in continuità con il proprio percorso in molte dinastie dalla storia consolidata.

Nota (4) - Indro Montanelli, L'Italia Giacobina e Carbonara, p. 305.

 

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Articolo pubblicato il 31/10/2018