Eugenio di Beauharnais

Un’aquila senz’ombra, di Alessandro Mella

Quando il giovane generale Bonaparte conobbe Rose Josephine Tascher de La Pagerie, la sua futura moglie già aveva portato i colori della vedovanza dopo che il marito, generale dell’esercito tra i protagonisti della caduta di Magonza, era stato ghigliottinato.

Da quel matrimonio erano nati due figli. Ortensia, poi regina d’Olanda a madre di quel bambino che divenne Napoleone III, ed il giovanissimo Eugenio.

Il ragazzo era cresciuto negli anni turbolenti in cui la rivoluzione aveva spazzato via l’assolutismo borbonico per poi divorare se stessa e gran parte dei propri animatori. Lasciando la Francia in un caos tanto violento da vanificare le conquiste che quei fatti tanto gravi avevano pur dato alla popolazione.

In questo clima, con la crisi inevitabile del poco illuminato governo del Direttorio, si giunse al consolato e poi all’impero napoleonico. Eugenio aveva intanto consolidato la propria formazione culturale e militare guadagnandosi, meritatamente, i favori di quel padre adottivo che tanto l’aveva preso a benvolere. Non era forse stato anche a Marengo nel giorno della vittoria più amata dall’imperatore? Amata tanto da superare in affezione l’ancor più brillante sole d’Austerlitz?

Eugenio, soprattutto, ispirava fiducia perché onesto, leale e fedele. Non a caso ricevette il gran collare della Legione d’Onore e la gran croce della Corona Ferrea oltre a numerose altre onorificenze ed ordini anche non francesi.

Nel 1805, già principe imperiale di Francia, egli ottenne il ruolo di viceré d’Italia:

«Prestò Eugenio dinanzi l’assemblea un solenne giuramento; a cui doveva egli attenersi; in quest’occasione l’imperatore si indirizzò ai rappresentanti del popolo italiano, colle seguenti espressioni: “Intanto che vado a prendere delle misure per dirigere io stesso i più importanti affari dello stato, lascio depositario della mia autorità questo giovine principe, che come mio allievo sarà animato dello spirito mio”» (1).

Questo ruolo gli lasciava, malgrado un certo centralismo di Napoleone, ampi spazi di autonomia ed il comando dell’esercito italico che, frattanto formatosi e consolidatosi tra mille traversie, fu sempre fucina d’eroi e rimase quasi sempre imbattuto financo nella primavera del 1814 quando vinse ancora l’armata austriaca sul Mincio.

Nel 1806 Eugenio si sposò con la principessa Augusta figlia di Massimiliano I di Baviera sovrano che gli concesse benevolenza e rifugio dopo il turbinio seguito alla caduta dell’imperatore a Parigi. Presente in Russia, con il IV corpo interamente italiano, Eugenio si comportò valorosamente e così nelle campagne del 1813 e 1814 quando, al contrario del re di Napoli Murat, resistette alle tentazioni ed offerte del nemico mantenendosi fedele al padre adottivo cui tutto, effettivamente, doveva. Sperò di ottenere la corona d’Italia ma la defezione dell’esercito murattiano lo costrinse a negoziati mentre l’insurrezione di Milano sconvolgeva gli equilibri generali:

«Il viceré Eugenio bramava la corona d’Italia: l’esercito lo supplicava a prenderla: le province della Romagna e dell’Emilia lo desideravano re.  Ma i burberi suoi modi, la nascita francese, il parentado con Napoleone gli alienavano molti animi, specialmente in Lombardia, e soprattutto in Milano. Gli ambiziosi desideravano mutazione: gli illusi, ed erano i più, giovani, inesperti, stanchi dei rigori napoleonici, aspirato a un governo affatto italiano e libero, alcuni perversi, sollecitati, per quanto si può conghietturare dall’Austria, intendevano a turbare le cose, troncare ad Eugenio la strada della corona, prepararla agli stranieri. Era il caso d’unirsi tutti, immolare i particolari risentimenti e opinioni al beneficio supremo dell’indipendenza e procurare il trono di Eugenio, (..)  ma così non fu, per sciagura e vergogna dell’Italia» (2).

L’assassinio barbaro e bestiale del ministro Prina lo convinse ad abdicare e cercare rifugio in Baviera presso il suocero che l’accolse offrendogli un pacifico e dignitoso esilio. Nel corso della propria esistenza  (avventurosa ma anche tormentata dal momento che Eugenio non aveva, comunque, un carattere facile a dir dei suoi contemporanei) egli ebbe a vantare numerosi titoli: Dal 1794 al 1804: Eugène Rose, visconte di Beauharnais (per successione diretta alla morte del visconte Alessandro suo padre); dal 1804 al 1805: sua altezza imperiale Eugenio di Beauharnais, principe di Francia; dal 1805 al 1807: sua altezza imperiale Eugenio di Beauharnais, principe di Francia e viceré d’Italia; dal 1807 al 1810: sua altezza imperiale Eugenio di Beauharnais, principe di Francia, viceré d’Italia e principe di Venezia; dal 1810 al 1814: sua altezza imperiale Eugenio di Beauharnais, principe di Francia, viceré d’Italia, principe di Venezia e granduca di Francoforte e dal 1817 al 1824: sua altezza reale Eugenio di Beauharnais, duca di Leuchtenberg e principe d’Eichstätt.

Da sempre legato alla massoneria, egli finì per passare gli ultimi anni dedicandosi ai propri beni economici ed alla cultura. Un ictus, forse dovuto anche allo stress ed alla stanchezza accumulatisi in anni di vita tanto difficili, lo portò via nel 1824.

Personaggio con enormi contraddizioni caratteriali: egli fu valoroso, fedele e senz’altro intelligente ma al tempo stesso spesso arrogante e nervoso. Indubbiamente l’Italia gli deve molto perché fu anche per suo merito che si gettarono le basi su cui si edificò il glorioso Risorgimento italiano (3).

Lo confermano anche queste righe dell’autunno del 1813, quando ormai si temeva per l’avvenire. Il principe Eugenio si rivolse ai suoi popoli facendo appello proprio al loro spirito italiano con, tra le altre, anche queste parole:

«Ma ciò che l’imperatore aveva fatto per la Francia, non bastava alla sua grande anima. Egli non poteva essere insensibile alla sorte dell’Italia. Il suo primo voto fu quello di ridonare a voi pure la vostra esistenza e celebrità antica. Egli si pose sul capo la corona di ferro troppo lungo tempo giaciuta nell’oblio e le volte del nostro tempio di echeggiarono di queste memorabili parole: Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca! Da quel punto esistette il regno d’Italia; da quel punto gli Italiani rigenerati si rammentarono della gloria dei loro antenati; da quel punto in faccia all’Europa attonita, essi stabilirono il loro posto in mezzo le nazioni più onorate. Italiani, io vi conosco; voi pure se avete fedeli giuramenti vostri. Un nemico che per lungo tempo vi ha successivamente assoggettati e che nei secoli scorsi aveva maggiormente contribuito a dividervi (…) per la terza volta osa minacciare oggidì il loro territorio e la vostra indipendenza. (…) Italia! Italia! Questo sacro nome che produsse nell’antichità cotanti prodigi, sia oggidì il nostro grido d’unione!» (4).

La memoria del principe francoitalico si perpetua, oggi, tra le mura del Palazzo Reale di Monza ove egli visse gli anni straordinari della prima Italia proiettata verso il futuro. Troppo spesso egli viene liquidato con poche parole dai libri di testo delle scuole e la sua figura resta sconosciuta a chi non sceglie d’approfondirne le gesta con letture specifiche e dedicate. Come accade, troppo spesso, con quei soldati italiani che lo seguirono in Russia e si fecero onore in tutta Europa invocando sui campi di battaglia quell’Italia che stava per venire.

Alessandro Mella

Nota (1) - A. Ceresa, Storia di Napoleone Bonaparte scritta da un italiano, Volume II, Milano 1838, p. 305.

Nota (2) - E. Ricotti, Breve storia d’Europa e specialmente d’Italia, V. Maisner coeditore G.B. Paravia, Torino 1864, p. 648.

Nota (3) - A. Mella, Viva l’Imperatore Viva l’Italia – Le Radici del Risorgimento – Il sentimento italiano nel ventennio napoleonico, Bastogi, Roma 2016.

Nota (4) - Autori Vari, Gli italiani in Illiria e nella Venezia 1813-1814, Comando del Corpo di Stato Maggiore – Ufficio Storico, Libreria dello Stato, Roma 1930, pp. 72-73.

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Articolo pubblicato il 24/10/2018