Torino. Dare è la migliore forma di comunicazione

Il dialogo Medico-Paziente come cardine del percorso di cura

A quanti di noi non sarà capitato, almeno una volta nella vita, di rivolgersi speranzosi a un Medico, confidando di ottenere da Lui rassicurazione e conforto oltre che cura, ma di sentir purtroppo liquidare frettolosamente le proprie ansie con un glaciale e sbrigativo “stia tranquillo”.

Col risultato di accrescere ulteriormente l’inquietudine, acuita dalla frustrazione del non essere stati capiti.

In questo senso, è evidente come l’instaurarsi di un corretto rapporto comunicativo fra Medico e Paziente sia condizione imprescindibile per promuovere piani di cura realmente proficui e fruttuosi, che conducano nel più breve tempo possibile alla guarigione dell’ammalato.

Tuttavia, affinché la comunicazione possa rivelarsi davvero efficace, essa deve prima di tutto esserci: e in corsia la buona pratica del “dialogo” (ovvero della “comprensione attraverso il discorso”) pare purtroppo alquanto emarginata.

Ne ha parlato il Dott. Stefano De Luca, Urologo presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria San Luigi Gonzaga di Orbassano (TO), nell’ambito del recente convegno torinese dal titolo “Umanizzazione delle cure e empowerment”.

La riflessione promossa dall’autorevole Relatore ha posto a confronto due modelli alternativi di Medicina, operativamente e costruttivamente molto diversi fra loro.

Il primo, cosiddetto disease centred, colloca al centro del percorso di cura la malattia, intesa come alterazione dei normali equilibri biologici che regolano l’esistenza di un individuo. Con quest’approccio (semplificabile e genericamente riproducibile, in quanto ancorato a soli parametri oggettivi) la funzione del Medico si esplica in quella di “riparatore”, incaricato di accomodare una macchina guasta. Questa visione echeggia la teoria cartesiana dell’Uomo-Macchina e si distingue giustappunto per i criteri di rigido pragmatismo che la caratterizzano, riducendosi in ultimo a una serie di relazioni causa-effetto.

Visti i sintomi biologici della patologia, il Medico formula dunque una diagnosi, proponendo il trattamento terapeutico ritenuto migliore. Il Paziente si riduce dunque a “caso clinico”, oggetto passivo d’indagine diagnostica a cui non viene richiesta “compartecipazione” alle cure ma solo “compliance”, ovvero consenso (dis)informato.

Questo modello è statico, con impostazione verticale e gerarchica e non produce scambio di informazioni. Può persino condurre al paradosso – racconta il Dott. De Luca, richiamando un’esperienza occorsaGli durante il quarto anno di Medicina – di esporre e commentare la situazione clinica di un Paziente ospedalizzato senza che questo sia fisicamente presente durante la “visita”.

Per contro, il punto di vista patient centred (introdotto dallo Psichiatra statunitense Engel sul finire degli anni ‘70) focalizza l’attenzione sulla centralità del Paziente, il quale non è più solo espressione biologica della malattia ma anche coacervo di esperienze, emozioni e reazioni psicologiche che della patologia possono essere catalizzatori, se non concause.

In questo senso viene meno la riproducibilità diretta del caso clinico, perché ciascun ammalato è diverso dagli altri e il ruolo cruciale del Medico si sposta dal “curare un oggetto passivo” al “prendersi cura di un soggetto attivo”, direttamente coinvolto – con i famigliari – nel percorso terapeutico. A mezzo di un movimento d'informazioni orizzontale e livellato.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana”, commenta il Dott. De Luca, “che cambia per il Paziente il modo di vivere la malattia”, specie in virtù del fatto che una delle principali critiche mosse alla classe medica sia proprio quella di scarsa compresenza, soprattutto dopo la fase acuta della patologia.

A questo proposito un’indagine condotta presso l’Ospedale San Luigi, in cui si era chiesto ai Chirurghi di attivare un cronometro ogni qual volta impegnati a dialogare con i Pazienti, ha purtroppo rilevato un tempo medio di conversazione giornaliera pari a soli 2 minuti, comunque in linea con i dati della Letteratura internazionale le cui medie risultano comprese fra 0 e 3 minuti.

Altri studi attestano come un Medico sia solito interrompere la narrazione dei propri Pazienti dopo appena 14 secondi: così rinunciando, colpevolmente, a utili informazioni che, se fornite, potrebbero in ultima analisi determinare una più celere e doviziosa anamnesi. Senza necessariamente dilatare troppo le tempistiche della visita, come invece paventato da quanti criticano questo modello di Medicina.

Le ricerche condotte evidenziano quanto ancora resti da fare: tanto, giustappunto, in termini di efficientamento o empowerment, quanto sul versante della maggior umanizzazione del personale sanitario.

A tal fine, è evidente come l’accresciuta attitudine all'ascolto passi, anche, attraverso la capacità del Medico di proiettare se stesso dall'altra parte, nelle vesti del Paziente. Esemplificativa, in questo senso, la scena del film “Un Medico, un Uomo” scelta dal Dott. De Luca. In essa si scorge un famoso Chirurgo che, afflitto da tosse stizzosa, decide di sottoporsi a una visita specialistica presso l'Otorinolaringoiatra del proprio ospedale. La Collega, tuttavia, si comporta algidamente, ignorando la malcelata inquietudine del Medico, il quale vorrebbe comunque minimizzare: “si tratta solo di tossetta, solo un po' di raucedine”. La diagnosi si rivela però ben più infausta, e resa disarmante dall'assenza di qualsivoglia preparazione e partecipazione emotiva da parte della Dottoressa. Dunque, anche tra Specialisti e addetti ai lavori servono umanità e comprensione, di cui l'attuale modello di Medicina (disease centred) non tiene conto.

In più, se da un lato l'approccio esclusivamente biologico e meccanicistico ha permesso alla Medicina di raggiungere risultati un tempo inimmaginabili, dall'altro esso ne inaridisce e depaupera la funzione, ingenerando un minor gradimento dell'assistenza ricevuta. Questo fenomeno, ben noto agli Economisti, viene detto di controproduttività specifica: esso ha luogo in qualsiasi campo, quando effetti inizialmente positivi vengono esasperati a tal punto da produrre conseguenze negative, che vanno a sovvertire i benefici risultati dei primordi. L'esempio tipico riguarda la produzione di automobili. Essa ha certamente permesso di velocizzare i trasporti, tuttavia l'ingravescente e incontrollata immissione di veicoli sulle nostre strade sta, di fatto, comportando un allungamento nei tempi di percorrenza delle stesse.

Così l'esasperata suddivisione del corpo umano nelle sue singole componenti – pur accrescendo le competenze mediche in ciascun ambito – si è trascinata dietro un'inevitabile lottizzazione del sapere, con la conseguente perdita di quella visione olistica e soprattutto “atomica” della salute (nel senso etimologico di “indivisibile”) caldeggiata, in primis, dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.

D'altro canto, l’iper-specializzazione dei clinici si è altresì accompagnata a un surplus di trattamenti farmacologici, sino al paradosso di produrre “farmaci per persone sane”. Quando, invece, basterebbero semplicemente Medici consapevoli: pronti a debellare, con il presidio della loro presenza, una vieppiù  dilagante “sindrome di Ulisse”. Ovvero il vagabondare senza esito dei Pazienti, alla ricerca di quella figura che dia loro, finalmente, ascolto.

Specie ricordando come, continua il Dott. De Luca, “in seno alla comunicazione solo il 10% è contenuto. Tutto il restante 90% corrisponde a gestualità e modo di porsi”.

Con l'accortezza di non ridurre il processo comunicativo a un banale dualismo fra input e output. Dove dunque il Medico raccoglie le informazioni, le inserisce all'interno del proprio algoritmo diagnostico e restituisce, infine, un verdetto al Paziente. Più proficuamente, prima di elaborare i dati raccolti, il Medico dovrebbe invece sincerarsi di aver davvero compreso quanto riportato dal Paziente: e, all'atto della diagnosi, stabilire specularmente se e quanto le sue analisi siano state recepite dal malato.

Realizzando in questo una sorta di “placebo emotivo”, per cui il Dottore assurge quasi, per il suo fiducioso assistito, a primo “farmaco” del percorso di cura.

Tutto ciò vale in ambito sanitario, come brillantemente esposto dal Dott. De Luca. Nondimeno, questo discorso è applicabile anche alla vita di tutti i giorni, nel contesto dei normali e correnti rapporti fra le persone.

Perché “dare è la migliore forma di comunicazione”.

 

(Immagine di copertina tratta da Responsabile Civile)

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 03/10/2018