Appunti di viaggio in Russia (quattordicesima puntata)
Vassoio con simbologia imperiale legata ai Romanov - Museo Fabergé

San Pietroburgo, la capitale dei Romanov nata dal sogno di Pietro, di Paolo Barosso

Sul lato ovest della piazza del Senato, che accoglie al centro la statua equestre di Pietro il Grande, sorgono i due palazzi del Senato e del Sacro Sinodo, ideati da Carlo Rossi. La presenza tra gli edifici istituzionali di un palazzo del Sinodo si lega alla già sottolineata coesistenza nell’opera di Pietro I di tendenze innovatrici e continuità con la tradizione, aspetti in apparenza contraddittori, ma che vanno letti alla luce della linea ispiratrice dell’azione petrina, il patriottismo russo e la consapevolezza della missione imperiale della Russia, che aveva preso il posto di Bisanzio come erede della tradizione romana e custode della Cristianità ortodossa.   

Pietro intraprese una serie di azioni in coerenza con l’ideologia della “Terza Roma”, concetto elaborato tra XV e XVI secolo quando i gran principi di Moscovia, rappresentandosi come eredi di Costantinopoli, occupata dai Maomettani, e di Roma, caduta nell’errore prima di Bisanzio, assunsero su di sé il compito messianico di proteggere l’Ortodossia cristiana. Sullo scacchiere internazionale, in sintonia con questa tradizione ideologica, la Russia si atteggiò a protettrice delle minoranze cristiane dell’impero ottomano, con i tentativi (non riusciti) di Pietro di convincere il Sultano turco a concedere la libertà religiosa ai popoli ortodossi sottomessi. In particolare le genti balcaniche, di stirpe salava e fede ortodossa, guardarono con sempre maggior forza alla Russia, di cui accettavano la supremazia religiosa, come grande potenza che li avrebbe alla fine liberati dal giogo musulmano.  

Sul fronte interno, ispirandosi al cesarismo bizantino, con l’idea dell’origine sacra e autocratica del potere imperiale, derivato da Dio, e la predominanza del basileus sull’istituzione religiosa (l’imperatore bizantino poteva eleggere o deporre il patriarca), Pietro perseguì l’obiettivo di sottoporre la Chiesa ortodossa russa al controllo dello stato: morto nel 1700 Adriano, patriarca di Mosca e di tutta la Russia, impedì l’elezione di un successore, lasciando vacante la carica e collocando infine al vertice della Chiesa, a partire dal 1721, un organo collegiale, una sorta di ministero per gli affari della Chiesa, il “Santo sinodo dirigente”, che ebbe appunto sede nel palazzo del Sinodo e che era diretto da un procuratore superiore, intermediario laico tra i membri del sinodo stesso e l’imperatore, di cui si riconosceva la preminenza anche nella sfera religiosa.

Tale scelta, pur coerente con le premesse ideologiche, fu però percepita, insieme con le altre riforme attuate dall’imperatore, come un atto di rottura con la tradizione russa. Pietro trasferì il titolo di “Terza Roma” da Mosca a San Pietroburgo, ma i più conservatori non solo osteggiarono le innovazioni, accusandole di contaminare la purezza dei costumi russi, ma respinsero anche quest’idea, perché si faticava nel vedere la “Terza Roma”, rango in origine spettante a Mosca, in una città dalla forte impronta “europeizzante” come San Pietroburgo. Questo contrasto originò due posizioni contrapposte, che riflettevano i diversi atteggiamenti nei confronti delle novità esterne, gli occidentalisti, favorevoli alle riforme di Petro, intese come necessarie per rafforzare la Russia, e gli slavofili, fedeli alle pratiche antico-russe e contrari alle influenze europee. La seconda corrente sfociò nell’Ottocento nel pensiero “panslavista”, che esaltava le comuni radici identitarie dei popoli slavi affidando alla Russia la missione storica di “federarli” sotto un’unica autorità. A questo pensiero, che legittimò la guerra condotta dalla Russia contro l’impero ottomano, aderì il grande scrittore russo Dostoevskij, di cui si conserva a San Pietroburgo la Casa-Museo, allestita nell’ultimo degli appartamenti preso in affitto dal romanziere in città.

Nei disegni petrini la sua creatura, San Pietroburgo, era dunque la “Terza Roma”, in luogo di Mosca, ma senz’altro la città, poco somigliante all’antica Bisanzio, rivelava piuttosto influenze occidentali e conteneva non pochi richiami alla Roma latina, sia simbolici, come alcuni elementi araldici confluiti nello stemma cittadino, sia architettonici, evidenti ad esempio nella cattedrale di Nostra Signora di Kazan’ sorta tra 1801 e 1811 lungo la prospettiva Nevskij per ospitarvi le cerimonie degli zar, soprattutto i matrimoni (ma non i battesimi, che si tenevano in Sant’Isacco, né i funerali, riservati alla cattedrale dei Santi Pietro e Paolo). La chiesa, nonostante lo zar Paolo I avesse incaricato volutamente architetti russi e imposto l’uso di materiali russi, è una citazione della basilica vaticana di San Pietro, con la riproduzione in scala minore del colonnato berniniano.

L’interno della cattedrale, oltre alla tomba del generale Kutuzov, vincitore di Napoleone, custodisce una copia commissionata nel 1721 da Pietro il Grande della venerata icona della Madre di Dio di Kazan’ il cui originale, di fattura bizantina, riapparve secondo la tradizione nel 1579 nella città tatara di Kazan’, conquistata da Ivan il Terribile. L’effigie, venerata come “Liberatrice della Russia”, vessillo delle vittorie contro gli Svedesi e Napoleone, divenne l’icona di famiglia degli zar, tanto che l’ultimo imperatore, Nicola II, le consacrò la salvezza dello stato nel 1918, poco prima d’essere arrestato. Dell’icona di San Pietroburgo, così come del prototipo e delle altre copie, si persero le tracce dopo la Rivoluzione, distrutte dai Bolscevichi o vendute da contrabbandieri in Europa. Nel 2004 una copia dell’icona, giunta in Vaticano nel 1993, che accurate perizie datarono al principio del Settecento, venne restituita con cerimonia solenne al patriarca Alessio II per volere di papa Giovanni Paolo II. La Madonna alla fine prevalse sulla furia iconoclasta dei Bolscevichi, confermando le parole dello scrittore marxista Maksim Gor’kij, costretto a riconoscerle il ruolo di “nemico invincibile dell’ateismo” comunista.   

Tra le innovazioni più curiose attuate da Pietro I vi fu la misura che, di pari passo con la modernizzazione dell’abbigliamento, imponeva il taglio delle barbe. Nel 1698, tornato dal viaggio in Occidente, obbligò prima i boiari e poi tutti i sudditi russi, fatta eccezione per contadini e uomini di Chiesa, a radersi le lunghe barbe, che venivano portate per un’antica usanza russa, non scevra da implicazioni religiose. Già l’anno successivo si attenuò l’impatto del provvedimento, permettendo l’esenzione dall’obbligo del taglio dietro pagamento d’una tassa pari a 50 rubli, il cui assolvimento era comprovato dalla consegna d’una medaglia recante la dicitura “la barba è un ornamento ridicolo”.

Paolo Barosso

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Articolo pubblicato il 22/09/2018