Appunti di viaggio in Russia (dodicesima puntata)
Cattedrale di San Nicola, esempio di barocco di scuola rastrelliana, opera di un allievo del Rastrelli (1753-62)

San Pietroburgo, la capitale dei Romanov nata dal sogno di Pietro, di Paolo Barosso

È il maggio del 1703 quando, sul golfo di Finlandia, alla foce del fiume Neva, si avvia il cantiere voluto dall’imperatore Pietro I Romanov detto il Grande per la costruzione della nuova capitale russa, battezzata San Pietroburgo in omaggio all’apostolo Pietro. Il nome della città, come riflesso delle vicende storiche e politiche, mutò nel 1914 in Pietrogrado perché, in concomitanza con la dichiarazione di guerra della Germania contro la Russia, apparisse meno tedesco e più russo, e nel 1924 venne cambiato in Leningrado, per ricordare che proprio da qui, precisamente dall’area del monastero Smol’nyj, dove s’insediò il Comitato Rivoluzionario, ebbero inizio i drammatici avvenimenti che condussero alla Rivoluzione dell’ottobre 1917 guidata da Lenin e Trockij. Il tramonto del totalitarismo comunista portò con sé dal 1991 il ripristino dell’originaria titolatura cittadina, San Pietroburgo, riallacciando la città alle sue radici imperiali, fortemente legate all’epopea dei Romanov.

Nella realizzazione del progetto urbanistico, una vera e propria sfida alle avversità climatiche e ambientali, trovandosi il sito prescelto nel mezzo d’una vasta regione insalubre e paludosa (basti pensare che per la costruzione della cattedrale di Sant’Isacco, dove si battezzavano gli zar, si dovette stabilizzare il terreno con 24.000 tronchi d’albero), si riflette l’ambizione e la lungimiranza di Pietro, che volle consacrare, con la creazione dal nulla d’una nuova capitale protesa verso l’Occidente, l’ascesa della Russia al rango di grande potenza europea. Con la pace di Nystad (1721) si concluse infatti la Grande Guerra del Nord (1700-1721) che sancì il tramonto della Svezia, condannata a una posizione marginale nello scacchiere europeo, e il coronamento dei progetti di Pietro I, che acquisì per la Russia l’agognata egemonia sul Mar Baltico, accompagnata dall’assegnazione in “perpetuo dominio” di Estonia, Ingria, Livonia e la città di Vyborg.

L’intera parabola di Pietro il Grande, fondatore della città, appare segnata da una duplice tendenza. Da un lato è evidente l’irrefrenabile slancio verso l’innovazione, che gli attirò critiche e ostilità, addirittura l’incomprensione e l’inimicizia del figlio, lo zarevic Alessio, morto nel 1718 dopo essersi fatto coinvolgere in un complotto contro il padre dai contorni mai del tutto chiariti, ma che gli consentì di dotare la Russia, ormai estesa nei suoi confini sino alle estreme regioni orientali del continente asiatico, di ciò che le mancava per proiettarsi a pieno titolo nel novero delle grandi potenze, dalla creazione d’una flotta militare al riassetto dell’esercito sino alla riorganizzazione di interi settori dell’apparato statale e della società secondo criteri di “modernità” occidentale.

Dall’altro lato il desiderio di innovare, che non si proponeva di rinnegare il passato, ma di perseguire maggiore efficienza a beneficio dello Stato, non fu mai scevro da una solida consapevolezza delle radici della cultura e dello spirito russo. Le riforme attuate da Pietro, che traevano ispirazione da modelli occidentali e che vennero considerate dagli oppositori come un tradimento del modus vivendi russo, furono però sempre volte all’obiettivo di assicurare alla Russia un ruolo preminente sul palcoscenico internazionale: l’idea della grandezza russa fu il lume che guidò in ogni circostanza l’azione dell’imperatore.  

Pietro fu “grande” per le doti di realizzatore, che posero le premesse per l’ascesa della Russia nel consesso delle potenze mondiali, ma anche per l’imponenza fisica, dato che superava i due metri d’altezza. Egli, rimasto traumatizzato appena decenne dalla sanguinosa rivolta degli Strelizzi, che nel 1682, per questioni successorie, riversarono la loro rabbia contro l’entourage della zarina Natalia Naryshkin, madre di Pietro, asserragliata con i figli nel Cremlino, sviluppò un temperamento che alternava eccessi di accanimento verso quanti lo ostacolavano (nel punire il figlio, il manipolabile zarevic Alessio, fu spietato) a slanci di autentico altruismo (la sua morte, nel gennaio 1725, avvenne per le conseguenze d’un tuffo nelle acque gelate del lago Ladoga per salvare un gruppo di persone in difficoltà).

La riconoscenza dei Russi verso il grande imperatore rimase sempre viva e si rinvigorì con il ritorno alla normalità democratica dopo il periodo sovietico. Quando il partito cui apparteneva conquistò il municipio di San Pietroburgo, il presidente Vladimir Putin, pietroburghese di nascita, compì un atto dall’alta valenza simbolica: fece rimuovere dalla stanza del sindaco il ritratto di Lenin per sostituirlo con quello di Pietro Il Grande, evidenziando con questo gesto la volontà di recuperare il legame con le radici più profonde della storia russa, che gli anni oscuri del Bolscevismo avevano tentato di spezzare.

La coesistenza di slancio innovatore e fedeltà allo spirito russo, osservabile nella personalità di Pietro, si riverbera nella sua “creatura”, San Pietroburgo, protesa verso Occidente non solo per la posizione geografica, ma anche per l’aspetto di molte chiese e palazzi, plasmati da una schiera di architetti occidentali reclutati da Pietro e dai successori per configurare il volto di una capitale dai tratti “europeizzanti”. Il primo fu Domenico Trezzini, ticinese, che lavorò quasi da solo per dieci anni, dal 1704 al 1713, progettando dal nulla una città che nel volgere di vent’anni avrebbe accolto settantamila abitanti. Seguirono architetti tedeschi, olandesi, italiani, francesi, che modellarono gli edifici con una singolare commistione di stili, gusti e forme che rivelava la loro diversa provenienza e matrice culturale.

Ogni imperatore ebbe poi il suo architetto favorito: con la zarina Elisabetta (Elizaveta Petrovna), figlia di Pietro, che fu al potere dal 1741 al 1762, s’impose il fiorentino Bartolomeo Francesco Rastrelli, creatore del “barocco rastrelliano”, noto anche come “barocco elisabettiano”, originale mélange di elementi occidentali e tradizionali russi, che, con il sapiente dosaggio della policromia, sapeva riequilibrare le grandi scale degli edifici, dotati di lunghi fronti scanditi dall’alternanza di semicolonne, finestre, paraste, telamoni, e interni sfarzosi, con gran profusione di stucchi, specchi e giochi di luce. Tra le realizzazioni pietroburghesi, ricordiamo il palazzo d’Inverno, affacciato sul lato nord della scenografica piazza del Palazzo, fulcro del potere imperiale, e il monastero Smol’nyj, fondato nel 1748 per l’accoglienza e l’educazione delle orfane. Il palazzo d’Inverno, ricostruzione elisabettiana d’un edificio risalente ai tempi di Pietro, accoglie oggi la parte più monumentale del prestigioso museo Ermitage.

Paolo Barosso

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Articolo pubblicato il 20/09/2018