Giovanni Dieghi: nel deserto con i monti nel cuore!

Alessandro Mella ricorda un eroe piemontese da non dimenticare

Credo che la mia famiglia conosca i Dieghi da quasi un secolo. Da quando, cioè, essi acquistarono, nel 1922, la ex Scuola della piccola frazione di Viù (Torino) dove anche i miei antenati materni vivevano, il Salvagnengo.

Nota curiosa: mai avrei pensato che quel rapporto, consolidatosi di generazione in generazione, mi avrebbe condotto, tramite la nipote del personaggio di cui vi parlerò, Lidia Greco, a scoprire una bellissima figura di ufficiale e combattente quale fu Giovanni Dieghi.

Egli nacque il 30 gennaio 1897 in una buona famiglia torinese che gli permise di studiare in tempi in cui un diploma in ragioneria non era affatto scontato. Non ebbe, tuttavia, il tempo di pensare al lavoro od alla carriera perché la storia fece il proprio corso travolgendolo e Giovanni si trovò nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Un ufficiale sveglio, attento, giovane e brillante con due stellette alle manopole della sua uniforme. Combatté bene, ufficiale di complemento del 74° Reggimento di Fanteria cui appartenne dal 1917.

Al termine del conflitto l’Italia, tra le potenze vincitrici, contribuì a stabilizzare un continente profondamente mutato nei propri equilibri politici e territoriali dopo il crollo di ben tre imperi. Il tenente Dieghi fu, quindi, inviato in Turchia (Ad Adrianopoli l’attuale Edirne) con un contingente italiano nelle provincie assegnate alla Grecia e vi rimase almeno fino al 1920. Tornato dalla guerra e dalla lunga permanenza lontano da casa, egli si reinserì serenamente nella vita civile, si sposò e dopo tante privazioni volle acquistare una casa in montagna per la villeggiatura. Come s’usava a Torino nei primi decenni del secolo scorso.

Tra le mete più gettonate d’allora, vi erano le Valli di Lanzo e lui finì per acquistare un grazioso ed incantevole edificio nella frazione Salvagnengo di Viù ove poteva camminare, distrarsi, riposare, godersi i paesaggi ed andare a caccia assicurando, al contempo, aria buona e salubre alla moglie ed alle figlie.

La casa “Dieghi” divenne ben presto un luogo di ritrovo e le immagini del tempo ci mostrano persone dai volti distesi, rilassati e gioiosi. Era, quella, una residenza dai padroni accoglienti e gioviali. D’estate, dunque, vi regnava un’atmosfera piacevole ed assai diversa da quella del mondo che, intorno, cambiava ancora e preparava, purtroppo, nuovi conflitti. Dalla seconda parte degli anni’30 il nostro Giovanni dovette rinunciare a quel paradiso montano che tanto amava e che, fortunatamente, fu buon rifugio per la sua amatissima famiglia. Nel 1938, infatti, tornò a spirare il vento della guerra sull’Europa dal momento che il nuovo cancelliere tedesco, Adolf Hitler, aveva preso a reclamare, con sempre maggiore insistenza e protervia, la regione dei Sudeti in Cecoslovacchia nella quale vivevano moltissimi cittadini di lingua tedesca.

Per mesi si temette che potesse esplodere quello che, dietro una sua fotografia, lo stesso capitano Dieghi definì “eventuale conflitto tedesco cecoslovacco”. Uno scontro che avrebbe potuto tramutarsi in una scintilla pericolosa come quella del 1914 e, nel timore di un precipitare degli eventi, molti ufficiali vennero richiamati in servizio per esigenze straordinarie. Fu così anche per lui.

Giovanni Dieghi ebbe una destinazione a lui familiare e, quale ufficiale di fanteria, venne aggregato ai reparti GAF che presidiavano l’alta Valle di Viù, da lui sempre molto amata, tra le fortificazioni di Malciaussia e del Colle dell’Autaret. Le montagne, l’aria buona e quei cieli incantevoli non riuscirono del tutto sgraditi al nostro protagonista che lassù fu colto, con immenso piacere, dalla notizia che alla conferenza di Monaco l’accordo tra le potenze era stato raggiunto. Tutti credettero che fosse il salvataggio della pace senza immaginare che la guerra veniva solo rinviata di un anno.

Vi furono, infatti, nel settembre 1939 l’invasione tedesca della Polonia, l’ultimatum francoinglese e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

L’Italia, per infinite ragioni già note, finì per farsi trascinare in guerra il 10 giugno 1940 e Mussolini ordinò di velocizzare le operazioni in Africa per conquistare territorio inglese prima dei tedeschi in una sciocca e puerile gara.

Il nostro Giovanni, in quel periodo, si trovava laggiù, nell’Africa Orientale Italiana in servizio nel 102° battaglione coloniale formatosi in Eritrea da pochi mesi. Ai primi di luglio il reparto si mosse per prendere parte alla conquista di Cassala (operazione da tempo studiata con attenzione dallo stato maggiore) guidato dal 1° capitano Veneri con a disposizione tre compagnie fucilieri comandate dai capitani Donnini, Venier e dal nostro Dieghi ed inoltre una compagnia di mitraglieri agli ordini del tenente Marazzani.

Il nemico disponeva di poche forze, era lontano da eventuali rifornimenti ed impossibilitato a riceverne in tempi celeri. L’operazione riuscì e le forze italiane raggiunsero il loro obiettivo. Giovanni Dieghi scattò, in quei giorni, numerose fotografie e dietro ognuna appuntò reparti, nomi e cognomi e circostanze senza mai nascondere un comprensibile orgoglio per la brillante azione compiuta.

Citò anche, affettuosamente, i nomi di tutti gli Ascari che, eroicamente, combattevano al suo fianco ed uno in particolare commuove. Scrisse, infatti, il nostro capitano: Ascaro Bahata Gonder (circa 70 anni) due volte reduce della conquista di Kassala (17 luglio 1894 – 4 luglio 1940). La didascalia non nascondeva una certa ammirazione per quel glorioso soldato indigeno, già reduce delle campagne coloniali ottocentesche.

Dopo i combattimenti che condussero alla presa di Cassala, il 102° battaglione coloniale transitò nell’8a Brigata Coloniale dislocata a Tessenei sul fiume Gasc lungo il confine con il Sudan. Di questo periodo, sono numerosi scatti fotografici che il Dieghi produsse durante le ricognizioni compiute nella zona ad ovest anche per procedere ad interruzioni della ferrovia Cassala-Cartum e Cassala- P. Sudan. Il nemico non aveva alcuna intenzione di restare con le mani in mano e le forze inglesi, in breve, ripresero l’iniziativa tentando con vigore ed ampiezza di mezzi di riprendere i territori perduti. Territori difesi con strenua ed accanita resistenza dai nostri combattenti.

Il Comando Superiore, in vista d’un imminente e massiccia offensiva, ordinò il ripiegamento delle nostre forze. È di questo periodo la gloriosa carica di Cherù condotta dal leggendario Amedeo Guillet contro i blindati britannici per favorire la ritirata degli altri reparti italiani. La cavalleria italiana ed indigena si insinuò come una furia tra i carri inglesi che non poterono sparare tra loro, seminando un caos che per ore ed ore rese immobili le unità nemiche.

Chissà se il capitano Giovanni Dieghi, in quelle ore terribili, incontrò mai il tenente Guillet? Non lo sapremo mai perché fu proprio in quei giorni dominati dalle difficoltà, dai continui attacchi inglesi, dalle difficoltà nel tenere le posizioni che il nostro protagonista perse la propria vita. Mentre gli inglesi sparavano in forze, anche lui sparò, sparò con disperazione, con coraggio, con accanimento. Le circostanze di quell’episodio sono chiaramente percettibili dalla motivazione della medaglia d’argento al Valore Militare concessa, tardivamente, nel 1951 alla memoria del nostro eroico ufficiale:

Dieghi Giovanni di Pietro, distretto di Torino, capitano di complemento, 102° battaglione coloniale (alla memoria). Comandante di compagnia ascari, in duro e sanguinoso combattimento affrontava con indomito coraggio preponderanti forze di fanteria e corazzate nemiche attaccanti, ributtando ripetutamente l'attacco. Rimasto con pochi uomini alla difesa della posizione, circondato, anziché arrendersi, continuava a combattere finché cadeva colpito a morte. Esempio di alto senso del dovere e di sublime sacrificio. A. O., 23 gennaio 1941.

Le spoglie di Giovanni Dieghi, che fu dichiarato formalmente dispeso dalla Pretura di Torino il 13 settembre 1949, non rientrarono mai in Italia e nessuno dei suoi commilitoni sopravvisse od ebbe modo di comunicare dove fossero state composte dai suoi soldati, orfani della propria guida.

Un uomo indubbiamente amato, lo rivelano i volti delle fotografie, dai propri combattenti. Il suo nome andò ad aggiungersi alla lista dei troppi dispersi d’un infausto ed inutile conflitto. Oggi lui si trova ancora là, tra le sabbie infuocate d’Africa, in mezzo ai suoi uomini come un bravo comandante desidererebbe. Un valoroso disperso ma mai dimenticato, un uomo il cui coraggio resta vivo nei ricordi della sua famiglia e di coloro i quali, leggendone le vicende, non potranno che provare un brivido nel cuore, di stima, ammirazione e rispetto. Sentimenti che ne perpetuano la memoria anche nel nostro cinico ed immemore secolo.

Nel nastro azzurro, nell’argento, del suo valore militare sopravvivono tutti gli ideali, i valori, i sogni e le speranze che l’animarono e che è dovere morale consegnare al futuro e non abbandonare nel calderone della storia in cui tutto, fatalmente, troppo spesso si perde. Anche lassù, tra le sue montagne che molto amò e nella sua casa, resta tutt’oggi qualcosa di lui. Il ricordo ma, soprattutto, l’esempio. Saremo uomini e donne, cittadini, migliori anche pensando a lui ed al suo eroismo, quanto di più bello l’Italia ha lasciato in terra d’Africa.

Alessandro Mella

L’autore di questo studio desidera ringraziare la dott.sa Lidia Greco, nipote del capitano Dieghi, per la disponibilità. Un ulteriore ringraziamento desidera indirizzare all’impareggiabile ricercatore storico Vito Zita esperto di vicende coloniali italiane.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 26/09/2018