La morte di Mafalda di Savoia Assia – Una tragedia dell’Italia in Europa

Editoriale del professor Aldo A. Mola

In vista della Tavola rotonda «Mafalda di Savoia. Da Principessa a deportata» che si terrà oggi a Pamparato (CN), riportiamo questo editoriale del professor Aldo A. Mola apparso su “Il Giornale del Piemonte” di domenica 26 agosto 2018 (m.j.).

Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo Landgravio d’Assia, morì dopo una tardiva amputazione del braccio sinistro, ustionato sino all’osso, per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe anglo-americane che l’avevano ferita. L’intervento ebbe luogo nell’ambulatorio improvvisato nel postribolo del campo di concentramento di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia di Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dal 8 ottobre. “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena.

Riscoprire la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti nella conciliazione della memoria storica, con quanto può derivarne nella vita quotidiana. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse l’imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” nel 1982 (poi, Bompiani, 2006), seguito dal bel saggio sulla “Regina della Carità”, come Elena venne definita. Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana: una condotta abbietta nei confronti del Re Gentiluomo, che volle con sé nel feretro il regio sigillo. Deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa, a quel modo il Re mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta.

Il monito non fu raccolto. Eppure basta rievocare di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la sterile polemica retrospettiva contro la Casa, che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Pagando molto. Nella carne. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara abdicò e partì per il Portogallo, ove si spense, consunto, il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberal-progressista guidato dall’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. E quindi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò e partì per l’Egitto il 9 maggio 1946, e, di lì a poco, di suo figlio, Umberto II, appunto, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946. Senza ritorno.

Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra.

Fra le molte rimane ingiustificabile rimane il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire né ammettere: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto.

Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, s’ammalò d’improvviso (probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva sganciare il proprio paese dall’alleanza con i tedeschi) ed era ormai agonizzante. Suo marito, sposato nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto. Il viaggio di rientro in Italia per la principessa Mafalda fu un’odissea. Alla stazione di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell’armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo in Puglia) e invitata a rimanere. Proseguì per raggiungere i figli, a Roma, forte del suo rango. L’aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì raggiunse fortunosamente Roma. Mafalda si riteneva al sicuro proprio per il rango di Prinzissin, che agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un’aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato molto fiduciosamente i figli minori, (Enrico, Otto ed Elisabetta), al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però presto li allontanò perché, accampò, sopraggiungevano nipoti suoi.

Pertanto anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania. Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, venne arrestata (22 settembre 1943). Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15.

Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in angosciosa attesa di notizie della principessa, prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine dettero notizia i giornali, con commenti ingenerosi e inopportuni, il 14 aprile 1945. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì subito al Re. Nel Diario annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Solo un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio quando in Italia cessò la guerra, tramite i canali informativi della Santa Sede, venne la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so - scrisse Puntoni - che egli soffre terribilmente...”. Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’esilio (9 maggio 1946). Lo ricordò Tito Torella di Romagnano in “Villa Jela” (Garzanti).

Dell’atroce fine della principessa non si doveva parlare tra fine della guerra e referendum istituzionale. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva combattuto e pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione, ancora una volta ponendo a servizio della Patria le persone dei sovrani, i loro figli e i loro beni. Doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, atrofica come il padre ai muscoli degli arti inferiori e tuttavia attivissima, dedita alla beneficenza generosa e discreta, come sua madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche incitanti all’odio e al disprezzo nei confronti di Casa Savoia, la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum fu frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati.

Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Quando riconobbe la salma della Prinzessin, con sollecitudine egli la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove venne sepolta, sia pure come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne riconobbero la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria dell’identità italiana. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato anche Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria in Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell’ombra poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler (Bastogi).

Settantadue anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 e mentre l’assetto istituzionale scricchiola per tracotanza di due vicepresidenti e l’evanescenza del presidente del Consiglio, la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s’impone quale parte integrante della storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso ininterrotto, senza traumi bellici, ma poi fecero i conti con la grande guerra e nel ventennio seguente fronteggiarono la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure. La concordia deve prevalere sull’odio, sull’invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia.

Quell’Italia, sovrano in testa, commise vari errori e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è il re solo (né, meno ancora, un sovrano isolato quale fu Vittorio Emanuele III, tuttora in attesa di una biografia scientifica) sibbene l’intera dirigenza, che ne fu quanto meno corresponsabile. Osò dirlo Aimone di Savoia-Aosta con la franchezza tipica della sua Casa: e fu a sua volta costretto all’esilio. Lo ricorda anche Amedeo di Savoia in Cifra Reale. Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito a riflettere sulla storia italiana del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente senza pregiudizi paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello.

Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d’Italia rimase l’unica monarchia costituzionale rilevante nell’Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell’Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo (non gradito dalla Regina Madre, Margherita di Savoia), nel 1925 “Muti” andò in sposa al Langravio d’Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico: un luterano. Giovanna, terzogenita, sposò l’ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l’uno né l’altro matrimonio e interpose clausole medievali. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato l’ortodossa Elena di Montenegro, pensava anzitutto all’Italia nel difficile quadro europeo (l’URSS non era un amico...) e alla libertà di coscienza di tutti i regnicoli. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato. Un re in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è un paradigma per i presidenti sotto assedio dei tempi nostri. Fu il caso di Giovanni Leone e di Francesco Cossiga.

Quale sorte attende Sergio Mattarella? Tocca agli italiani dotati di senso della storia, alimento del senso dello Stato, rimboccarsi le maniche e coniugare l’oggi con il lungo corso dell’Italia unita.

È significativo che nell’anniversario della sua tragica morte Mafalda di Savoia venga ricordata a Pamparato, due passi da Vicoforte ove dal dicembre 2017 riposano le salme dei suoi genitori: luoghi di pace e di meditazione.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 28/08/2018