La città è in corsa. Sorpasso ed è boom…

Andrea Biscàro sviluppa alcune riflessioni sul Miracolo Economico

«Non saper fare niente in un mondo che sa tutto»

Così cantava Luigi Tenco nella sua ultima canzone, Ciao amore ciao.

Così mi sento nei confronti di una pletora di esperti che tutto sa sin dai tempi della strambata, passando per lo spread arrivando al calcestruzzo e agli stralli, per non parlare delle concessioni autostradali! Mi sento cosi ignorante seppur con qualche piccolo, logico e sensibile pensiero di uomo che tiene strette a sé quel genere di incertezze che lo animano.

Partecipo come tutti – potenziali vittime di ogni incuria – allo strazio per l’ennesima, prevedibile tragedia, il crollo del Ponte Morandi.

Siamo un Paese che per mettere in sicurezza i cinematografi, ha dovuto vederne bruciare uno con la gente dentro. Siamo fatti così, male e per giunta recidivi, con autentici Angeli chiamati Soccorritori, cani inclusi.

Qualcuno mi ha detto: «Ecco, un’altra tragedia come il Vajont!». E no, caro signore, la diga sta ancora là, ha retto! È stato il monte Toc a franare nelle acque del bacino realizzato con la diga.

La conseguente tracimazione dell’acqua contenuta nell’invaso ha fatto il disastro.

Il vero colpevole? L’ingordigia. L’Italia del Boom era affamata di energia. Ricordate Com’è bella la città di Gaber, con le esigenze impellenti fatte di luce, le quali hanno sempre un prezzo occulto?

«Piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce | con tanta gente che lavora con tanta gente che produce. | Con le reclames sempre più grandi coi magazzini le scale mobili | coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più».

Rimanendo sul monte Toc, senza volare alto coi sacri testi di geologia, diamo una scorsa a Wikipedia: «l’origine del toponimo proviene dalla parlata locale: la radice “Toc” in gran parte del triveneto significa “pezzo”, ma in lingua friulana indica anche qualcosa di “guasto”, “avariato”, “sfatto”, condividendo lo stesso etimo dell’aggettivo “Patoc” che peraltro significa “zuppo” o “marcio”». Un monte franoso. Far finta di niente con certe etimologie può costare davvero caro…

Tornando a Genova, affermare «è necessario raggiungere in fretta la verità affinché non si ripetano più simili tragedie» è inesatto. Raggiungere la verità non ha nulla a che vedere con la speranza di evitare nuovi crolli. Ammesso che s’arrivi a una verità processuale e che qualcuno paghi sul serio, questa non ha nulla a che spartire con ciò che spesso manca: una fattiva prevenzione. Una Sentenza non sensibilizzerà mai la coscienza di un Sistema. È ben altro a farlo.

Un aspetto unisce le due tragedie: lo stesso decennio. Il Ponte è stato inaugurato nel 1967, la Diga nel ‘61. Due momenti differenti, ma entrambi radicati nel periodo che va sotto il nome di Miracolo Economico o Boom, collocabile tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima dei Sessanta. Dal dopoguerra l’Italia ha posto le basi per una tale crescita economica da diventare una potenza economica mondiale. Sono gli anni di Enrico Mattei, che voleva un’Italia grande – con i pregi e i difetti di alcuni aspetti del suo operato, tipici del Belpaese – e per questo è stato ammazzato.

Sono anche gli anni della commedia e del cinema di denuncia.

Tre le pellicole che consiglio, in particolare per l’humus sociale e culturale che hanno inteso narrare. Mi riferisco a Il boom (Vittorio De Sica, 1963), Il sorpasso (Dino Risi, 1962), Le mani sulla città (Francesco Rosi, 1963). Tre film che aiutano a comprendere le criticità (in una prospettiva a medio-lungo termine) di un’Italia che aveva entusiasticamente ingranato la quarta in discesa. La scelta di presentarle in quest’ordine è mirata ad acquisire per gradi la consapevolezza dell’essenza di quegli anni, effettivamente ricchi di spinte migliorative della qualità di vita, ma al contempo schizofrenici. Il Consumismobraccio operativo del Capitalismo – ha colpito in pieno, irreggimentando un popolo. Ancor prima dei film (disponibili in Dvd), suggerisco la visione (su YouTube) di una riflessione di Pier Paolo Pasolini:

«Il regime è un regime democratico. Però quella aculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente ad ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. Posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che forse non ce ne siamo resi conto. É avvenuto tutto negli ultimi cinque, dieci anni. È stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. E adesso risvegliandoci, forse, da quest’incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare».

Dopo questa analisi, è il momento di guardare i film e accedere così a quel bisogno di dané, di produrre, di arrivare, di superare ad alta velocità anche in curva, di mettere le mani sulla città, fregandosene del piano regolatore, dell’impatto sull’ambiente (ambiente che?), delle eventuali regole, risparmiando con metodi illeciti e – col tempo – insicuri, oliando il sistema.

Ne Il boom, Alberto Sordi è un impiegato (sposato con la figlia di un Generale) che vorrebbe fare l’imprenditore e che vive alla grande, indebitandosi. È l’Italia delle cambiali. Ormai con l’acqua alla gola, il responsabile della agenzia di prestiti gli dirà: «Con questo boom perdete tutti la testa». Il personaggio interpretato da Sordi non perderà la testa bensì un occhio, venduto per un sessantina di milioni. Salverà il matrimonio, la posizione, la possibilità di proseguire la sua folle corsa all’interno dell’ingranaggio del Miracolo Economico. Il film si apre e si chiude con una serie di immagini che ben riassumono l’esigenza di crescita – una crescita che genera fame compulsiva – del Paese: cartelloni pubblicitari d’ogni genere. Alla fine, ci si ammazza di lavoro, ci si fa sotterrare dalle cambiali e si vende pure un occhio per avere tutto, tutto quello che hanno gli altri.

In questa corsa frenetica si inserisce Il Sorpasso, con Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant.

Roma. È ferragosto. La città è deserta. «Due occasionali amici, uno studente universitario un po' timido e un quarantenne immaturo, passano assieme la giornata spostandosi con l’auto. Le ore passano veloci in un susseguirsi di episodi tragicomici, fino all’epilogo inatteso e drammatico: la morte dello studente causata dall’incoscienza dell’altro» (My Movies).

Il Sorpasso è un’opera complessa, apparentemente leggera. È un viaggio senza meta su una macchina (l’Italia) che corre con a bordo due italiani dissimili fra loro. Sia nel Boom che nel Sorpasso, è presente un suono indimenticabile: la musica che accompagna Alberto Sordi nel suo girovagare disperato in cerca di soldi (una marcetta che fa sovvenire una italietta trullera e incosciente) e il clacson dell’auto sportiva di Gassman, quell’irritante suono arrogante che trasmette il polso di un Paese trafficone, spavaldo, che corre e manco sa dove sta andando. Ciò che colpisce nel Sorpasso è la difficoltà a individuare un aspetto realmente sano, integro, dei due protagonisti così come dei comprimari. È come se si volesse comunicare una “responsabilità” collettiva nel viaggio senza freni del Paese, dove tutti sembrano avere una porzione di buonsenso e di sregolatezza, dove, alla fin fine, i soldi e la sensualità governano e anche i “migliori” (il giovane e pudico Trintignant, tutto studio e tradizioni) risentono dell’influsso della virile incoscienza (di Gassman) che, in fondo, attrae. Dai dialoghi emerge un Paese sfilacciato, non organico, specialmente nei rapporti, ormai stregato dal benessere e dall’individualismo. La folle corsa finisce tragicamente. In piedi, seppur ammaccato, resta il più furbo, si fa per dire. Chissà se avrà imparato la lezione oppure, alla prossima curva, toccherà a lui? Il film non ce lo dice.

A dire parecchio è invece Le mani sulla città. La didascalia recita: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». «Napoli, primi Anni Sessanta. Crolla un palazzo a causa di un cantiere limitrofo di proprietà di un certo Nottola, speculatore edilizio appoggiato dalla maggioranza che guida l’amministrazione della città. Viene aperta una commissione d’inchiesta dalla quale emerge che le pratiche per la concessione sono state corrette dal punto di vista formale. Nottola è però diventato ‘scomodo’ e non è possibile garantirgli il posto da assessore che egli pretende in seguito alle ormai imminenti elezioni» (My Movies).

Le mani sulla città è interpretato da Rod Steiger (Nottola), Salvo Randone (figura eccezionale di politico di ieri, oggi e domani) e dal sindacalista napoletano Carlo Fermariello, il consigliere comunale dell’opposizione De Vita. Un film di impegno civile, una spietata denuncia della speculazione edilizia dell’Italia del Boom. Lascia con l’amaro in bocca. Il tour che fa lo spettatore all’interno degli Uffici tecnici comunali è realistico quanto assurdo: le normative per la sicurezza nelle costruzioni ci stanno, è tutto scritto, nessuno controlla, ma se poi i palazzi vanno giù, beh, ci sta la magistratura per questo! È l’Italia del «a me non compete», della politica che favorisce un costruttore anziché un altro, che non bada al materiale impiegato, che cura i rapporti con Roma, che, alla fine, con tanto di ministro, vescovo e compagnia bella, inaugura nuove opere e avanti così.

Che altro aggiungere? Tanto. Un periodo storico articolato come il Miracolo Economico non possiamo certo “liquidarlo” con tre pellicole seppur notevoli. Va studiato nella sua complessità, da Nord a Sud, con caratteristiche e velocità differenti. Questi tre film rappresentano un utile strumento di comprensione della fretta, non di rado della spregiudicatezza, di quella stagione.

Il resto? Il resto è il tempo che passa e tutto si usura. Se qualcosa crolla, è evidente che non era più in grado di stare in piedi. Attribuire parti di responsabilità all’entusiasmo – chiamiamolo così – del Boom non salva, moralmente, un Paese che spera sempre nella botta di fortuna mica verrà giù se interveniamo tra qualche mese»), che attende, discute, si scanna per arrivare a poco o niente. Un Paese più che in un caso scollato dalle evidenze materiali di criticità, sordo ai molteplici segnali d’allarme lanciati dai cittadini e dagli esperti. Cosa dobbiamo attenderci per il futuro? Un cambio di paradigma, dal privato al pubblico. Paradigma… Un finale non mi esce. Scriviamolo assieme, noi cittadini in ogni Regione, non mollando l’attenzione. Il finale è davvero aperto…

Andrea Biscàro

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 22/08/2018