Quell’Italia che vinse per tutti

Alessandro Mella esprime considerazioni sulla Prima Guerra Mondiale, in particolare a proposito dell’armistizio a Villa Giusti del 4 novembre 1918, sulla base di vari studi

Il fantaccino austriaco che, bandiera bianca alla mano, sgusciò dalle trincee dopo Vittorio Veneto fu, suo malgrado e dimenticato il proprio nome, il pioniere dell’avvenire andando a spalancare le porte a cambiamenti epocali.

Tutto era iniziato, storia nota, con l’omicidio di Sarajevo di quattro anni prima e mentre l’Europa cedeva gradualmente al turbinio di sanguinaria follia l’Italia, silente, guardava. Una nazione che si spaccava nel dibattito tra interventisti e pacifisti. Gli uni infervorati dalla dottrina nazionalista grandemente diffusa e gli altri, salvo rare eccezione ideologiche come quelle dei socialisti, aggrappati saldamente al buon senso.

In guerra entrammo, alfine, nel 1915 e lo facemmo nel peggior modo possibile garantendo amicizia al datato alleato (alla Germania ed all’antipatica Austria eravamo legati da precisi accordi diplomatici) ed allo stesso tempo trattando a Londra una partecipazione al conflitto che parve più un diktat che un vero accordo.

Il parlamento, aggirato, si trovò di fronte al fatto compiuto tanto che a guerra finita la questione fu oggetto dell’attenzione di un saggio come Giolitti che, volendo guardare lontano, tentò di introdurre il principio secondo cui le dichiarazioni di guerra andavano ratificate dalle aule parlamentari.

La guerra, è noto, fu condotta nel nome del completamento dell’unità nazionale ma soprattutto fu lunga e logorante maggiormente per uno stato ed un popolo giovanissimi ed uniti da molto poco. Tra le trincee del Carso, sul Piave, del Cadore o per i sentieri del Sabotino certo gli Italiani si incontrarono, si conobbero e presero a capirsi.

Ma a quale prezzo?

I fatti di Caporetto gettarono, nel 1917, una cappa di sconforto su combattenti già provati ma aizzò anche il nervosismo di alleati che certo non ci volevano bene. Grande merito andò a Vittorio Emanuele III che a Peschiera si erse quale scudo contro le ingerenze e le arroganze straniere. Re, figlio e nipote di grandi sovrani, garantì in prima persona per il suo popolo ed azzerò le polemiche.

Lui che, nel fango della prima linea, c’era stato mentre la regina Elena al Quirinale, trasformato in ospedale militare, si occupava dei feriti e mutilati giunti dal fronte.

Il capo dello stato fu, come rare volte nella storia, il vero riferimento del proprio popolo. Chi, per vicende successive, ne pose in dubbio il coraggio e le virtù semplicemente non lo studiò a sufficienza per comprenderne le scelte ed i sacrifici.

Il popolo, l’esercito, rispose e vennero Vittorio Veneto e la firma dell’armistizio a Villa Giusti il 4 novembre 1918. Una firma che fino a pochi mesi pareva se non impossibile quantomeno non scontata.

Al tavolo della pace dell’Italia ci si dimenticò e molti conti restarono aperti creando le premesse per i fatti di Fiume del 1919.

Il malcontento dei reduci, le condizioni difficilissime di un’economia provata dal conflitto e le promesse non mantenute aprirono le porte al fascismo.

Uno scivolone ventennale.

Eppure quegli alleati ingrati mancarono di lungimiranza con l’ex nemico non meno di quanto mancarono con qualcuno che aveva combattuto con loro.

Perfino tra le trincee francesi.

Un qualcuno che anzi che aveva pienamente titolo d’annoverarsi tra loro fin dal 1915 e da quel fatidico 24 maggio.

Lo sgambetto all’Austria ed alla Germania non fu ripagato e, come recentemente indicatoci dagli studi di Aldo A. Mola ed Antonino Zarcone, si palesò quanto l’Italia avesse avuto nemici, qualche incerto alleato ma nessun vero amico.

Eppure quella nazione giovane e vigorosa aveva un merito enorme mai riconosciuto.

L’armistizio con l’Austria prevedeva, tra l’altro, che le armate italiche avrebbero potuto liberamente attraversarla per attaccare la Germania da oriente e chiuderla così in una morsa micidiale.

Al logorato, provato ed ormai circondato impero di Guglielmo II non rimase a quel punto che chiedere la resa ed invocare la pace non potendo più difendersi su tutti i lati.

L’Italia un poco ambigua nel 1915, delusa nel 1917, coraggiosa ed eroica nel 1918 ed amareggiata nel 1919 aveva, al prezzo di 650.000 vittime, vinto per tutti.

Anche per chi, sciaguratamente, finse di dimenticarsene.

Alessandro Mella

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Articolo pubblicato il 22/08/2018