Come nacque e come resse l’Italia - Un’idea forte, una dirigenza diffusa (seconda e ultima parte)

Relazione tenuta dal prof. Aldo A. Mola a Canischio (Torino) il 5 agosto, per la Giornata Commemorativa del Centenario della Grande Guerra

La presidenza del governo passò da Cesare Balbo ad Alfieri di Sostegno e Perrone di San Martino. Pinelli vi entrò come ministro dell’Interno. Da due anni era capofila dei moderati. Nel 1847 a Casale Monferrato (sua seconda patria) aveva presieduto il congresso dell’Associazione agraria che incitò Carlo Alberto ad assumere la guida dell’indipendenza italiana. Nel gennaio 1848 fondò il settimanale liberalmoderato “Il Carroccio”, al quale collaborarono Giovanni Lanza e Carlo Cadorna. Per Pinelli il Carroccio era il simbolo poi cantato da Giosue Carducci in “La Battaglia di Legnano”: non fomite di divisioni campanilistiche ma propugnacolo della lotta unitaria per l’indipendenza. Non per caso a scrivere la prima corposa storia della Lega lombarda (già soggetto di un magnifico quadro di Massimo d’Azeglio) fu l’abate di Montecassino Luigi Tosti, fautore dell’unità nazionale in rotta di collisione con Pio IX.

Per Pinelli il difficile venne dopo. Ormai in aperto contrasto con Gioberti (che pretendeva la prosecuzione della guerra a tutti i costi) nelle elezioni del 22 gennaio 1849 egli venne sconfitto a Cuorgnè dal teologo ex amico, che però, pago di averlo umiliato, optò per il collegio Torino III. In marzo arrivò il peggio: la “brumal Novara”, l’abdicazione di Carlo Alberto, l’armistizio di Vignale, che salvò l’assetto costituzionale del regno ma al “Piemonte” impose un’ingente “riparazione” finanziaria e la temporanea occupazione militare straniera di piazze strategiche. Rieletto, nel nuovo governo presieduto dal generale De Launay Pinelli tornò all’Interno. In tale veste sostenne la repressione dell’insorgenza repubblicana a Genova attuata dal generale Alfonso La Marmora, che la ritenne inaccettabile “tradimento in faccia al nemico”.

Quattro volte confermato deputato di Cuorgnè e ministro dell’Interno nel governo presieduto da Massimo d’Azeglio (maggio 1849: se ne veda l’Epistolario curato dal provenzale Georges Virlogeux per il Centro Studi Piemontesi), Pinelli divenne la personalità eminente della Camera, che il 29 dicembre 1849 lo elesse presidente. In tale veste compì una delicata missione a Roma per convincere Pio IX a rimuovere l’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, che aveva fatto negare il viatico al morente Pietro de’ Rossi di Santa Rosa, perché come ministro aveva approvato le “leggi Siccardi” per l’abolizione del foro ecclesiastico separato, la medievale immunità dei luoghi sacri e altre misure necessarie a condurre il clero nel diritto comune. Pinelli non raggiunse lo scopo. Tratto in arresto da La Marmora e deportato nel forte di Fenestrelle, benché fregiato del Collare della SS. Annunziata e quindi “cugino del Re”, mons. Fransoni fu costretto all’esilio perpetuo in Francia.  

Morto Pinelli, neppure cinquantenne (destino parallelo a quello di Camillo Cavour), e dopo due rappresentanti di minor rilievo, Cuorgnè elesse deputato il massone Terenzio Mamiani, ministro della Pubblica istruzione, genio poliedrico che nominò il venticinquenne Giosue Carducci docente di letteratura italiana all’Università di Bologna. Quando Mamiani divenne ministro plenipotenziario di Grecia (all’epoca in cerca di un Re: si pensò anche a un Savoia), il 7 luglio 1861 Cuorgnè elesse deputato il generale Ferdinando Augusto Pinelli (1810-1865), ormai al culmine di una carriera militare che lo vide passare di successo in successo, anche nel Mezzogiorno, ove nel settembre 1860 comandò l’assedio di Ancona e nel marzo 1861 quello di Civitella sul Tronto, ultima resistenza borbonica. Pinelli non esitò a bollare Pio IX “Vicario non di Cristo ma di Satana” e “sacerdotal vampiro”. Fautore del primato della fanteria, tra molte opere di strategia e di tattica Pinelli scrisse la poderosa “Storia militare del Piemonte dal 1748 al 1796”, sulla traccia di Carlo Denina e a continuazione del capolavoro di Alessandro Saluzzo di Monesiglio, autore di cinque volumi scritti per rivendicare la centralità della tradizione militare durante l’annessione del Piemonte al napoleonico Impero dei Francesi. Dedicata “alla gioventù italiana” l’opera di Pinelli fu un inno all’identità tra cittadino e milite, come nell’antica Roma, per liberarsi dalle “irte falangi del dispotismo”.

Alla sua morte Cuorgnè elesse deputato il generale Trofìmo Arnulfi (1803-1880), nativo di Escarène, nel Nizzardo. Giunto ai vertici del Corpo dei Reali Carabinieri dopo innumerevoli delicatissime missioni (contro mazziniani, briganti, nemici dell’ordine: nel maggio 1859 sventò un attentato a Vittorio Emanuele II e a Napoleone III che stavano entrando in Milano, liberata dal giogo asburgico), nei quindici anni di mandato parlamentare Arnulfi propugnò numerosi disegni di legge per potenziare le Forze Armate del giovane Regno d’Italia, la cui difesa era in tanta parte da ideare perché (a eccezione del regno di Sardegna) gli Stati preunitari avevano (quando l’avevano: in genere erano succubi dell’Austria o di Napoleone III) una visione miope della politica estera e della difesa.

Gli artefici della Terza Italia erano dunque molto più numerosi dei 508 collegi elettorali del Paese: formavano una vastissima dirigenza che giorno dopo giorno cementò l’unità nazionale grazie a due strumenti decisivi: l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita e la leva militare, parimenti obbligatoria, in linea con la tradizione dello Stato sabaudo. Vanto degli elettori di tanti collegi fu (e rimane) di aver messo i loro voti a sostegno non solo di notabili locali meritevoli di un seggio parlamentare ma anche di personalità di spicco nazionale, in una concezione superiore della “sovranità”. Fu il caso di Cuorgnè.

La cittadina dette i natali anche a un protagonista pressoché ignorato della storia d’Italia, Domenico Maiocco (1883-1969). Ufficiale degli alpini temporaneamente in congedo per malattia contratta al fronte, nell’agosto 1917 questi si mise a disposizione di Giovanni Giolitti per il rinnovamento civile del Paese. Socialista e antifascista, iniziato massone nel 1923 nella loggia “Vita Nova” di Alessandria, dopo il 1943 Maiocco divenne gran maestro della Massoneria Italiana Unificata, riconosciuta dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato degli Stati Uniti d’America. “Sconosciuto messaggero del colpo di Stato” (come è intitolata la sua biografia, scritta da Antonino Zarcone, già capo dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), a ridosso del 25 luglio 1943 Maiocco fece da tramite fra gerarchi antimussoliniani, il leader degli antifascisti democratici, Ivanoe Bonomi, e Re Vittorio Emanuele III. Pensava in grande e agiva di conseguenza, per ricollocare l’Italia nella catena di unione delle liberal-democrazie occidentali. Anch’egli, come i Pinelli, Mamiani e Arnulfi, meriterebbe un adeguato ricordo, e non solo nella sua nativa Cuorgnè. Il Centenario della Vittoria è il momento propizio al ripasso generale della storia che ha fatto grande l’Italia, per coglierne i punti di forza e metterla in guardia da errori irreparabili. 

Aldo A. Mola

Fine della seconda e ultima parte

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Articolo pubblicato il 16/08/2018