Come nacque e come resse l’Italia - Un’idea forte, una dirigenza diffusa (prima parte)
Pier Dionigi Pinelli

Relazione tenuta dal prof. Aldo A. Mola a Canischio (Torino) il 5 agosto, per la Giornata Commemorativa del Centenario della Grande Guerra

Fonte: Il Giornale del Piemonte, 12 agosto 2018

Canischio è un piccolo comune affacciato sul torrente Gallenca, poco sopra Cuorgnè, nel Canavesano, quaranta chilometri da Torino. Il municipio è a Mezzanile, raccordo tra borgate i cui nomi passarono nel tempo ai loro abitanti, come documenta lo storico  locale Alberto Crosetto: Ferrero, Fogliasso, Braida... Nella Sala polivalente del Comune il sindaco, Riccardo Rosa Cardinal, ha allestito la mostra “Fede e valore” prodotta dal Ministero della Difesa e da lui duplicata, con gli alberi genealogici dei canischiesi caduti nella Grande Guerra e molti suggestivi cimeli: invito a riflettere sul miracolo della Riscossa dopo la ritirata di Caporetto (ottobre-novembre 1917), quando sembrava stesse tutto crollando e in poche settimane gli austriaci potessero arrivare a Verona, a Milano. Sarebbe stata la fine dell’Unità sorta appena 56 anni prima, con la proclamazione del Regno d’Italia. Il Paese rispose coralmente “Non passa lo straniero”. Parola d’ordine fu: “Resistere, resistere, resistere”, sul Piave come sul “fronte interno”. Le donne ebbero parte eminente in quell’epica lotta, come a Canischio ha eloquentemente spiegato il colonnello Antonio Zerrillo, del Comando Militare Esercito Piemonte, per anni stratega dell’informazione storiograficamente corretta sulla Grande Guerra, specialmente nelle scuole. Nelle fabbriche, nei campi, negli ospedali, in missioni delicatissime, nella fatica quotidiana e nella spesso straziante elaborazione di lutti domestici le donne italiane divennero con ogni evidenza protagoniste della vita nazionale. Lo si vide nella solenne celebrazione del Milite Ignoto, scelto ad Aquileia da Maria Bergamas, madre di un caduto non identificato, e traslato sino all’Altare della Patria in un’Italia cementata nel ricordo del sacrificio. Non erano stati i cittadini a decidere la guerra. Il Parlamento stesso l’aveva più subìta che voluta. Però furono gli italiani a sopportarne il peso e a vincerla. Lo comprese bene Vittorio Emanuele III, che elevò il Vittoriano a tempio della Terza Italia, custode delle Bandiere e delle Medaglie d’Oro. Umberto II stabilì che lì dovevano essere conservati anche i Grandi Collari della Santissima Annunziata, per ricordare che il Principe non opera in solitudine ma contornato dai suoi fidi, a loro volta chiamati a suscitare il consenso. Lì è il segreto degli Stati che durano nei secoli.     

Canischio ha riproposto la parabola dell’Unità nazionale: l’Italia non nacque per caso ma da Idee forti, il “Risorgimento”, la Terza Roma, e grazie a una dirigenza diffusa, consapevole, motivata, non “tirata a sorte” ma eletta in gara leale tra cittadini, libera da vincoli di mandato e di comprovata esperienza culturale, professionale e “politica”: la missione più alta nello Stato, come 2500 anni addietro spiegò Socrate, condannato a morte dagli ateniesi proprio perché li esortava alla serietà. La città non gli dette retta. Finì succuba di Filippo il Macedone, un barbaro rispetto a Pericle.

Dopo Caporetto tutto sembrava perduto ma agli ordini del nuovo Comandante Supremo, il napoletano Armando Diaz, l’Esercito arginò l’avanzata austro-tedesca, che, ormai lontana dalle basi di partenza, si esaurì sulla sinistra del Piave e contro le poderose difese del Grappa, allestite dal preveggente Luigi Cadorna, da sempre consapevole che quello sarebbe stato il bastione per fermare il nemico (non solo austro-ungarici e tedeschi ma croati e sloveni, i più accaniti).

La parabola proposta da Canischio è di vivida attualità. L’Italia superò la prova memore dei suoi principi fondativi: indipendenza, dopo secoli di dominio straniero; unità, dopo mille e cinquecento anni di frantumazione in feudi, comuni e signorie, tutti comunque “vassalli”; e libertà, cioè partecipazione dei cittadini alle decisioni che mettono in gioco lo Stato e le loro sorti. A lungo la storiografia di matrice ideologica ha esaltato il “Principe” di Niccolò Machiavelli, utilizzato soprattutto da Antonio Gramsci e dal suo “editore”, Palmiro Togliatti, a beneficio del Partito comunista italiano. Mentre Machiavelli esortava il Principe a redimere l’Italia dal giogo dei barbari e a creare lo Stato, quello gramscio-togliattiano intendeva soggiogare l’Italia esistente a un partito-chiesa, presto degradato a partito-spugna, così zuppo di prestiti estranei da risultare irriconoscibile: una profezia di quanto anche oggi accade ad altri “cartelli” che si atteggiano a prìncipi ma risultano privi di “senso dello Stato”.   

Per comprendere le radici remote della Riscossa del 1917-1918 giovano il ricordo del clima nel quale nacque l’unità nazionale, oggi come ieri patrimonio irrinunciabile, e una sintetica panoramica della dirigenza politica locale. A metà Ottocento, quando contava sei volte la popolazione attuale, Canischio era fra i 37 Comuni del collegio elettorale di Cuorgné. Il 27 aprile 1848 questo elesse deputato Pier Dionigi Pinelli (1804-1852), primo ufficiale al ministero della pubblica istruzione. Secondogenito di un alto magistrato fedele a Casa Savoia anche durante l’annessione degli Stati sabaudi di Terraferma da parte della Francia repubblicana e napoleonica (1798-l814), mentre il fratello maggiore, Alessandro, seguì le orme del padre nella Magistratura e il minore, Ferdinando Augusto, imboccò la carriera militare, Pier Dionigi, laureato in legge a Torino a soli 19 anni, si dedicò alla professione forense. All’Università aveva coltivato l’“amicizia pericolosa” con il teologo Vincenzo Gioberti, poi coinvolto in una cospirazione liberale e nel 1833 costretto a esulare in Francia, ove scrisse opere fondamentali non solo per il neo-guelfismo, che propose una federazione italiana presieduta dal papa, ma per la diffusione dell’idea di unione nazionale, prima monopolio di società segrete, quali la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, i cui metodi (attentati, moti armati...) furono deplorati e respinti da Massimo d’Azeglio e, in generale, dai moderati.

La prima elezione della Camera “subalpina” (termine riduttivo perché accanto ai “piemontesi” essa contava nizzardi, savoiardi, liguri e sardi e dal 1849 ebbe molti esuli politici, affluiti dagli altri Stati italiani) avvenne nell’entusiasmo degli iniziali successi dell’Armata sabauda nella guerra federale del marzo 1848 contro l’Austria. Due giorni dopo, però, Pio IX, artatamente celebrato quale papa liberale, sconfessò la partecipazione dello Stato pontificio al conflitto contro Francesco Giuseppe d’Austria, usbergo della Chiesa cattolica. Malgrado la vittoria a Goito e la presa di Peschiera, per Carlo Alberto di Sardegna, re costituzionale, iniziarono le sconfitte. Il maresciallo austriaco Radetzky aveva alle spalle le immense risorse dell’Impero, riportato all’ordine con la repressione delle rivolte scoppiate a Vienna e a Praga. L’8 agosto 1848 il generale Carlo Canera di Salasco firmò l’armistizio. Nel suggestivo Castello di Marchierù, un gioiello da visitare in Villafranca Piemonte, tra molti cimeli si conserva la scrivania sulla quale l’atto fu sottoscritto.

Aldo A. Mola

Fine della prima parte - continua

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Articolo pubblicato il 15/08/2018