Vittorio Amedeo II di Savoia, il Re “isolato” (seconda e ultima parte).

Editoriale del professor Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 29 luglio 2018.

Da tempo aveva avviato la redazione del catasto e riforme fiscali, caposaldo dello Stato, come un secolo addietro documentarono storici dell’economia quali Giuseppe Prato e Luigi Einaudi.

Nei quattro anni seguenti lo scenario europeo mutò rapidamente: l’Impero asburgico, la Gran Bretagna di Giorgio di Hannover, l’Olanda (sempre al seguito di Londra) e la Francia formarono la Quadruplice alleanza, tra i cui obiettivi vi fu il ritorno della Sicilia a Vienna, che già aveva il ducato di Milano e il regno di Napoli. Su impulso del cardinale Alberoni, fiduciario di Elisabetta Farnese, moglie di secondo letto di Filippo V Borbone di Spagna, dal 1717 Madrid aveva iniziato l’occupazione della Sardegna. Il 1° luglio 1718 33.000 militari spagnoli sbarcarono a Palermo, da molti accolti come liberatori. Le milizie sabaude erano sparute, disseminate in troppe fortificazioni e destinate a soccombere in caso di confronto armato.

Isolato e impossibilitato a difendere l’inarrivabile Sicilia, Vittorio Amedeo tentò le carte della diplomazia per ingrandirsi verso Milano, l’Emilia, la Toscana e ottenervi una corona. Sennonché il Sacro Romano Imperatore non riconosceva alcun titolo regale sulla Terraferma. L’ascesa di Federico III Hohenzollern a re di Prussia (18 gennaio 1701) fu il capitolo di una storia a parte, quella dell’area evangelico-riformata.

Con sano realismo, rifiutati vari allettamenti, l’8 novembre 1718 il sovrano sabaudo accettò le decisioni della Quadruplice e fece… san Martino dalla Trinacria alla Sardegna. Il cambio era in netta perdita, ma il Re rivendicò e ottenne il riconoscimento della successione sul trono di Madrid se e quando si fosse prospettata. Un secolo e mezzo dopo, su impulso del forse “fratello” generale Prim, le Cortes di Spagna elessero re Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta: una decisione che affondava radici nella lunga storia d’Europa e in quel momento vedeva nella Casa sabauda il propugnacolo del buon governo e delle libertà.

I “missi” di Vittorio Amedeo descrissero la Sardegna peggio di qual era. Di fatto, con appena trecentomila abitanti contro un milione e duecentomila siciliani, l’isola era pressoché priva di porti agibili da flotte commerciali, strade carrozzabili, manifatture. La popolazione, sintetizza Francesca Rocci nel succoso profilo di Vittorio Amedeo II (Edizioni del Capricorno), era estremamente povera, sparsa, agglomerata in borghi di rado reciprocamente comunicanti e soprattutto refrattaria alle “novità”. Il Re decretò il rispetto di usi e tradizioni locali e coltivò l’intesa con il notabilato che si rivelò nel tempo il nerbo del Regno, pari solo alla dirigenza sabauda di aristocratici e borghesi, quali Giambattista Bogino e il monregalese Carlo Francesco Ferrero, marchese di Ormea. Non per caso l’Inno Sardo accompagnò le fortune della Casa e il “senso dello Stato” anche dopo l’eclissi della monarchia, tanto che il mai abbastanza rimpianto Francesco Cossiga volle fosse eseguito quando, motu proprio, lasciò anzitempo il Quirinale.

Nel 1686, su pressione di Luigi XIV, che aveva revocato l’Editto di Nantes, anche Vittorio Amedeo II scatenò una feroce persecuzione contro i valdesi ai quali Emanuele Filiberto nel 1561 aveva invece concesso libertà di culto nelle loro “valli”: un modello di tolleranza per l’Europa sconvolta dalle guerre tra le diverse confessioni cristiane. I valdesi resistettero in armi. Ne nacque un conflitto che coinvolse gli evangelici svizzeri e la Gran Bretagna. Alle strette, il duca revocò i provvedimenti ostili nei confronti dei regnicoli valdesi, protagonisti del “Glorioso ritorno”. Da Duca e da Re, Vittorio Amedeo ebbe chiaro che il suo vero nemico era altrove. Nel 1720 papa Innocenzo VIII rifiutò di riconoscergli il titolo di Re di Sardegna e non ne approvò i designati a sedi vescovili. Le trattative fra Torino e la Santa Sede furono condotte dal marchese di Ormea e si trascinarono sino al concordato del 29 maggio 1727.

Lo stesso 1727 il sessantunenne Vittorio Amedeo chiamò al fianco il ventiseienne Carlo Emanuele per addentrarlo nei segreti del Potere. Il 26 agosto 1728 morì la regina, Anna Maria d’Orléans. Maria Teresa Reineri, studiosa di Fisica Nucleare, Cibernetica e Teoria dell’Informazione, ne ha scritto la biografia in un volume poderoso (ed. Centro Studi Piemontesi), che ne analizza la generosità verso il consorte e il profondo affetto verso il “Piemonte”. Fu anche antesignana dello stile due secoli dopo riproposto da Maria José del Belgio, sposa di Umberto di Piemonte, come documenta la Mostra “Reine de l’Elegance”, in programma al Castello di Sarre dal 5 agosto al 23 settembre.

Gli ultimi anni del Re furono convulsi, persino strazianti. Avviate la costruzione della Basilica di Superga e della Palazzina di Caccia di Stupinigi, capolavori di Filippo Juvarra, il 12 agosto 1730 il Re si unì in nozze morganatiche (cioè tra “dispari” e valide sotto il profilo religioso, ma non agli effetti dinastici) con Carlotta Canalis di Cumiana, antica fiamma elevata a marchesa di Spigno. Il 31 seguente informò il figlio che avrebbe abdicato. Lo fece il 3 settembre, partendo alla volta di Chambéry.

Allarmato da alcuni aspetti del nuovo corso politico intrapreso da Carlo Emanuele III, lo tempestò di consigli e moniti. Colpito da ictus cerebrale (5 febbraio 1731), in luglio vagheggiò di riprendere lo scettro. Mosse alla volta di Torino ma si fermò a Moncalieri, ove ricevette il Re. La notte del 28-29 settembre d’ordine del sovrano tredici ufficiali arrestarono Vittorio Amedeo II e la consorte e li destinarono l’uno al castello di Rivoli, l’altra a Ceva. Ormai quasi fuori di senno, Vittorio Amedeo II morì il 31 ottobre 1732 nel castello di Moncalieri, ove dall’aprile era ricongiunto con la consorte.

Carlo Emanuele III ne continuò la politica espansionistica verso Milano, secondato anche dal notabilato sardo, che allo Stato dette militari, diplomatici, ecclesiastici e storici quali Giuseppe e Antonio Manno, fedelissimi alla Dinastia.

Quell’agosto di tre secoli fa Vittorio Amedeo II fece i conti con la Necessità che domina la Storia: un passetto all’indietro per poi farne uno in avanti. Cento anni dopo, finalmente in possesso della agognata Liguria, i Re di Sardegna imboccarono la via che in cinquant’anni portò al Regno d’Italia. Le vicende di quel grande sovrano impartirono un’altra severa lezione: il Re abdicatario deve uscire dai confini dello Stato, come fecero Carlo Alberto nel 1849 e Vittorio Emanuele III nel 1946, per non intralciare l’opera della Corona: in Casa Savoia si regna uno per volta.

Aldo A. Mola

(fine della seconda e ultima parte)

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Articolo pubblicato il 04/08/2018