La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini
Giovanni Michele Graneri, Mercato in Piazza San Carlo, 1752 (Palazzo Madama – Museo Civico di Arte Antica di Torino)

Le suppliche delle donne che lavorano (di Cristina Quaranta)

Cristina Quaranta con questa sua ricerca, condotta su documenti dell’Archivio Storico della Città di Torino fornisce una immagine inconsueta dell’attuale centro storico della nostra città che possiamo vedere nelle scene di genere dipinte da Pietro Domenico Olivero (Torino, 1679 - 1755) e da Giovanni Michele Graneri (Torino, 1708 - 1762) ma che, forse inconsciamente, preferiamo rievocare sulla base delle scenografiche immagini delle stampe che illustrano i monumenti cittadini, dove compaiono soltanto pochi e manierati personaggi. (m.j.).

Nella seconda metà del Settecento, a Torino, molte donne sono in fermento: rivendicano diritti o meglio rivendicano il loro stato, alcune di rivendajola e altre di lavandaja. Quello che sorprende è che non rivendicano miglioramenti nel loro lavoro, guadagni maggiori per le prime e meno fatiche le altre, ma desiderano che tutto rimanga com’è!

Le rivendajole di frutta e verdura che sostano in pazza San Carlo desiderano rimanervi come sempre senza pagare il “posteggio”. Non l’hanno mai fatto, perché iniziare ora e scrivono nella loro supplica che la piazza è sotto il dominio del Governo e allora cosa pretende il Comune?

Al Vicariato gli impiegati si mettono all’opera per verificare le carte, conviene esaminare se questi motivi sono fondati e le donne veramente esenti da ogni tipo di pagamento anche quella modesta e onesta retribuzione della quale sono state tassate dagli Uffici della Città.

Il relatore esprime un proprio parere ammettendo un senso di compatimento, quando la Città ha fissato a ciascuna d’esse un fitto troppo grave ed esuberante ma se si pensa che da sempre sono state trattate con carità e discrezione pare, oggi, non abbiano giusto motivo di lamentela. È anche falso che tutti i sabati siano obbligate ad abbandonare il loro posto con grave danno economico, perché nel giorno di mercato le si fanno solamente arretrare ma non abbandonare la piazza e questo avviene solo nella stagione estiva dal momento che in inverno il mercato è previsto in altro luogo. Il Mercato sembra non doversi ritenere per loro una sconvenienza, ma una maggior opportunità, per la grande affluenza di gente e forestieri ai quali potrebbero vendere i loro commestibili.

La vertenza quindi si conclude col ritenere che le donne possono pagare la piccola quota di “posteggio” senza doversi ulteriormente lamentare presso le Autorità cittadine.

 

La Città ha deciso di sfrattare le lavandaie

Il 29 settembre del 1766 è giunta al Vicariato un’altra supplica, questa volta da parte delle lavandaie che sono solite lavare la lingerie dei signori della città, nella lunga bealera, nel rivo d’acqua che da Porta Susina, scorrendo in città, passa per la Cittadella e scivola via verso Porta Nuova e poi stendere il bucato nei prati attigui. Le donne chiedono di continuare ad usare quella bealera, consuetudine ormai centenaria, e non essere costrette a lasciare la postazione. Quale sarà, si chiedono, il loro destino e la loro nuova sistemazione?

L’informativa del Vicario conte Giovanni Antonio Frichignono di Castellengo, è chiara ed esauriente. Le doglianze gli giunsero poco dopo il suo insediamento, dal commendatore De Vincenzi, perché le donne lavano la biancheria nei canali della Cittadella e l’acqua sudicia di questi finisce all’Arsenale, con materiale che spesso intasa e ne limita il flusso. L’acqua giunge pressoché inservibile, non pronta all’uso. Il Vicario rifletté che l’esercizio delle lavandaie alla Cittadella disdiceva oltremodo alla pulitezza del sito. Trovò che vi si ammucchiavano ogni sorta di panni e lini sconci, senza riserbo d’occultar almeno quelli schifosi. Oggi dopo aver fatto il bucato, asciugano nelle vicinanze delle due bellissime allee, a ridosso delle mura, non solo numerosi cenci ma anche altri panni ancora impressi di materia nauseosa perché impossibile ad essere pulita meglio.

Quel mattino l’ordine è stato perentorio: via tutto, tutto deve sparire!

Ma solo verso le ore ventitré l’Ufficiale riusciva, a stento, far togliere la biancheria da quel sito, dove spesso si va a passeggiare sia a piedi che in carrozza, costretti a soffrire la disdicevole vista. Lo stesso disordine avviene anche in certi pomeriggi d’inverno quando talvolta SS.AA.RR. Duchi di Savoia, del Chiablese e il principe di Piemonte percorrono a piedi i camminamenti della Cittadella.

Il Commendatore parlò anche con S.M. che dopo aver ascoltato le sue parole ordinò perentoriamente la rimozione delle lavandaie, cercando di trovar loro una nuova sistemazione in breve tempo anche perché fra queste v’erano coloro che si occupavano del bucato delle Caserme.

Ma quante erano le lavandaie lamentose? Sicuramente meno di quattrocento, meno, in ogni caso, di quelle che si esponevano nel ricorso presentato. All’incomodo per le donne che lavano i panni se ne ricava certamente un gran vantaggio per l’Arsenale, ma dove trovare un sito ancora pratico per loro che raccolgono i panni sudici in città e che devono poi riconsegnare? Sistemarle lontano vorrebbe dire togliere alla maggioranza di loro quel denaro che spesse volte è l’unico introito famigliare, mandarle forse nelle vicinanze della chiesa della Consolata, o meglio sarebbe sistemarle fuori dalle Quattro Porte della città. Oggi le lavandaie pagano un piccolo importo di denaro a coloro che badano ai prati della Cittadella per il danno che arrecano e cessando l’esercizio anche loro subirebbero un danno, sebbene lieve. Né giova la supposta taciturnità dei cento anni passati nell’esercizio delle lavandaie a ridosso della Cittadella, ma certo questo non merita considerazione, riflettendo sul disordine odierno, perciò alla luce di tutte queste considerazioni e del pensiero di S.M. si opta per la pulizia del luogo e per la maggior purezza dell’acqua che arriva all’Arsenale; non si può recedere dalla premessa determinazione dell’espulsione delle lavandaje della Cittadella!

Un secolo più tardi le troveremo in regione Barca e in Bertolla, luogo a ridosso della confluenza dei fiumi Stura di Lanzo e Po. Acque e spazio a volontà per il comodo dei torinesi.

Cristina Quaranta

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Articolo pubblicato il 23/07/2018