Salvaguardare i diritti di Libertà

A cura di Aldo Alessandro Mola

 

SALVAGUARDARE I DIRITTI DI LIBERTA'

Post fata resurgo

 

A Cura di Aldo Alessandro Mola

 

Per settimane urla, insulti e minacce di “politici” di varia ascrizione hanno messo a dura prova la pazienza dei cittadini, con l'acme finale della richiesta di incriminazione e condanna all'ergastolo (sic!) del capo dello Stato perché, in assenza di accordo tra Lega e M5S, come suo dovere egli provvide ad allestire comunque un governo per un Paese sull'orlo dell'abisso.

Al di là dei sorrisi gelidi di maniera scambiati nel protocollo, queste giornate rimarranno nella storia. Una ferita profonda.

 

Durante settimane di ignobile cagnara, indegna di una democrazia matura, è scivolato via sotto silenzio il 90° di eventi che invece chiedono memoria. Nel maggio 1928 fu approvata la legge che sostituì con il collegio unico nazionale l'elezione dei deputati alla Camera in libera gara nei collegi uninominali e la “legge Acerbo” del 1923, maggioritaria e già sperimentata il 6 aprile 1924.

Gli elettori furono chiamati ad approvare o a respingere in blocco una lista di quattrocento nomi integralmente preconfezionata dal Gran Consiglio del Fascismo, che in quel momento era ancora un sodalizio di partito, privo di veste pubblica, una sorta di “piattaforma”.

 

La sua costituzionalizzazione avvenne solo sei mesi dopo, con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693. Il 16 marzo Giovanni Giolitti, 86 anni, cinque volte presidente del Consiglio, schiena diritta in un Paese di doppiogiochisti e di opportunisti, dichiarò alla Camera che la nuova legge elettorale, tracciata dal nazionalfascista ministro della Giustizia Alfredo Rocco, segnava “il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”.

Il discorso (venti righe a stampa) fu un monito anche verso la Corona che avallava una riforma a vantaggio del regime di partito unico, il Partito nazionale fascista, coacervo di “ras” e di correnti, dal programma confuso ma dalle mire evidenti: la conquista definitiva dell’immane torta del potere e la sua spartizione in fettine che andavano dai gerarchi alla pletora di sansepolcristi, marciatori su Roma, etc. sino all'ultimo “caposcala” di condominio.

 

Alla violazione dello Statuto Giolitti oppose un solenne “No”. I liberali sono fatti così. Non hanno paura di dire verità scomode. Gnostici e pelagiani, non temono di essere minoranza, né di venir perseguitati.

A loro importa essere a posto con la propria coscienza. I liberali italiani (mai numerosi, invero) hanno un retaggio di cui può andare orgoglioso ogni cittadino consapevole della storia patria (chi non lo è, rimane un elettore dimezzato): l'illuminismo del Settecento, la modernizzazione di età napoleonica, le cospirazioni costituzionali dell'Ottocento, l'unificazione nazionale, tutte conquiste civili e politiche costate lotte, sacrifici, torture, patiboli.

 

Tanti liberali celarono le loro carte nei nascondigli più impensabili. Vissero di segreti e nel segreto, seguaci dell'Evangelista Giovanni. Poiché “gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Giovanni, 3,19), per serbare viva la Luce e diffonderla in epoche di persecuzioni bisogna vivere occulti, campare di poco, “testimoniare”.

 

Encratici come Socrate. Il liberalismo ha insegnato l'orgoglio di rimanere minoranza, senza la fatua illusione di avere consenso di armenti richiamati da erbe più verdi, incalzati ai fianchi da segugi abbaianti e sospinti a severi colpi di verga.

 

Dal 1928 gli italiani furono incasellati, intruppati e costretti a prostrarsi al regime. È vero che la “macchina” rimase imperfetta, come scrive Guido Melis (“Immagine e realtà dello Stato fascista”, ed. il Mulino).

Però Mussolini provò a fare gli italiani a immagine e somiglianza di un modello forzato, paramilitare, devozionale, preso a prestito dai socialisti rivoluzionari, dalla  tragica irreggimentazione dettata dalla Grande Guerra e dal reducismo postbellico...: una sequenza approdata nel motto demenziale “credere, obbedire, combattere”.

 

Per chi? Perché? E mai un dubbio? In realtà anche il governo Mussolini in vent'anni cambiò varie volte alleanze e, spinto dai suoi stessi errori e da ambizioni superiori alle risorse  del paese(la guerra d'Etiopia, l'intervento in Spagna), scelse infine quella più autolesionistica, con la Germania hitleriana che, annessa l'Austria, ormai confinava con l'Italia.

 

Come sempre nella sua storia millenaria, i tedeschi ambivano al Mediterraneo, senza però capire che se avessero voluto dominarlo avrebbero dovuto concentrarvi strategia e forza militare adeguata, superiore a quella degli Inglesi che lo controllavano da Gibilterra a Malta, da Cipro a Suez.

Ma l'austriaco caporale Hitler (che sbarrò gli occhi dinnanzi alle belle forme di Paolina Bonaparte Borghese) non aveva la stoffa di Federico II di Svevia.

 

Nato a Jesi lo “Stupor Mundi” non è sepolto nella terra di Arminio ma nel Duomo di Palermo, non lontano dalla Cappella Palatina, ove, vestito con la dalmatica, andava a messa leggendo il Corano. 

Nel 1929 il nuovo Statuto del Partito nazionale fascista dettò regole ferree. I segretari dei fasci di combattimento dovevano “conoscere i precedenti politici e morali, nonché i mezzi di vita di ciascun gregario” ed esigerne la genuflessione.

 

I nuovi iscritti dovevano giurare di “eseguire senza discutere gli ordini del Duce” e di “servire con tutte le loro forze, e se necessario anche col loro sangue, la causa della Rivoluzione fascista”, che però nessuno, neppure Mussolini, sapeva bene che cosa fosse: una fiammella pentecostale? una sorta di “grazia di dio”?

 

Non bastasse, secondo lo statuto del PNF “il fascista che viene espulso dal Partito” doveva  essere “messo al bando dalla vita pubblica” (un po' come dettano gli statuti di movimenti di recente conio). Fascio e Stato erano dunque una cosa sola? In realtà neanche Mussolini ce la fece. Venne precisato infatti che “coloro che occupano cariche pubbliche di nomina governativa non possono essere soggetti a procedimenti né a punizioni disciplinari finché non abbiano lasciato le cariche stesse”.

 

Lo Stato (militari, magistrati, funzionari, docenti...) comprendeva in quota significativa antifascisti e persino massoni. Eliminarli tutti avrebbe comportato il collasso della pubblica amministrazione. A tacere del corpo diplomatico e del “parastato”, popolati di grembiulini, l'intreccio tra pubblico e privato venne edificato dall'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) presieduto dal massone Alberto Beneduce, mentre il “fratello” Balbino Giuliano assunse il ministero dell'Educazione Nazionale.

 

Il 90° di quegli eventi merita attenta meditazione. Alcuni si domanderanno quale fu l'opera di Giolitti dopo il già ricordato discorso alla Camera del 16 marzo. Isolato nelle due ville di Cavour, come era stato più volte negli anni precedenti e soprattutto tra il 1915 e il 1918, quando fu persino bersaglio di un attentato alla sua vita, lo Statista alternava la lettura della storia e la contemplazione della morte, che lo raggiunse il 17 luglio 1928. Era uno stoico, convinto che prima o poi l'Italia si sarebbe ripresa, come aveva fatto tante volte nel corso del tempo, malgrado invasioni barbariche, scorrerie di saraceni, occupazione e saccheggi di “bande” criminali, come i Lanzi che misero a sacco Roma nel 1527 e assediarono Firenze nel 1530...

 

Altri si interrogheranno se Vittorio Emanuele III sia intervenuto per frenare gli eccessi del movimentismo dei fascisti e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che ne inquadrò le componenti più facinorose. La risposta al quesito è netta e al tempo stesso più articolata. Poche settimane dopo la discussione della legge elettorale, il Re e la Regina furono bersaglio di uno spaventoso attentato mentre andavano a inaugurare la Fiera Campionaria di Milano. Era il 12 aprile 1928. Un ordigno collocato nella base di un lampione di ghisa esplose causando una mitragliata di schegge che uccise venti persone e ne  ferì gravemente quaranta.

 

Gli autori e i mandanti del crimine rimasero ignoti.  Imperturbabile come venne descritto dal generale Arturo Cittadini, suo aiutante di campo,  in  “memorie” di prossima pubblicazione, il Re Solato percepì il proprio isolamento. Non se ne trova cenno nel profilo scrittone da Pierangelo Gentile, ripubblicato dal Corriere della Sera (2018) a conferma che la sua figura rimane in attesa di una biografia scientifica. Il Re attese solidarietà concrete dal mondo monarchico, ma ne giunsero solo flebili e formali.

 

Altre voci (come quella di Benedetto Croce) si levarono in Senato l'anno seguente contro l'approvazione dei Patti Lateranensi, perché “Parigi non vale una messa” e la libertà di coscienza non è “a noleggio”. Però alle elezioni del marzo 1929 il regime ottenne uno straripate successo, a conferma che il voto e la democrazia sono realtà distinte e spesso distanti, ieri come oggi.

 

Occorre meditarvi mentre tanti sono abbacinati da eventi ancor tutti da decifrare.

Nel frattempo occorre vegliare sui diritti di libertà non negoziabili, alzando l'insegna antica della Fenice: “Post fata resurgo”

 

Aldo A. Mola

 

 

 

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Articolo pubblicato il 04/06/2018