Ultimo degli Antichi, primo dei moderni

L’avventura di Antonio Canova

Ultimo degli antichi, primo dei moderni, Canova, pur radicato nell’humus italico, può essere considerato a pieno titolo un artista europeo: i sovrani e i potenti dei vari paesi, tra il XVIII e il XIX secolo, ingaggiarono infatti serrate trattative per ottenere il privilegio di commissionare e acquistare le sue sculture.

E il celebre atelier, dove lavoravano decine di aiutanti, ben presto divenne una meta obbligata per gli intenditori di cose d’arte in visita a Roma. E proprio grazie a Canova, non solo la città eterna ma l’Italia tutta visse la sua ultima vera stagione quale principale mercato dell’arte in ambito europeo. 

Al massimo esponente del neoclassicismo in scultura, tanto da essere definito “il nuovo Fidia”, la casa editrice torinese Utet ha dedicato uno straordinario volume di 362 pagine, nell’ambito della rassegna Grandi Opere, dal titolo Canova. Il segno della bellezza, che raccoglie i testi di uno dei maggiori studiosi dell’artista, Giuseppe Pavanello, professore di storia dell’arte moderna presso l’università di Trieste, ed è arricchito da settantacinque opere fotografiche delle sculture canoviane.

Il libro, che s’inserisce nelle iniziative editoriali per l’anno europeo del patrimonio culturale, si articola in tre sezioni: Canova scultore, Canova pittore, disegnatore e incisore, Come lavorava Canova.

Alle fotografie di Mimmo Jodice, che illustrano numerosi capolavori canoviani, si aggiungono più di cento immagini di opere in gesso, pitture a tempera e a monocromo, bozzetti, disegni e incisioni dell’artista realizzate dal fotografo Alfredo Dagli Orti.
Obiettivo primario del prezioso volume, a tiratura limitata, è di rendere finalmente giustizia a Canova debellando lo stereotipo secondo cui la sua arte, sebbene pregevole, fosse in fondo “fredda”, insidiata da una vena accademica che ne isterilisce l’espressività. Tale critica, in realtà, veniva mossa a tutto il movimento neoclassico, ritenuto reo dalla cerchia dei benpensanti più sensibili all’ardore romantico di copiare pedissequamente, senza una personale rielaborazione, i capolavori dell’arte greca e romana.
Solo in tempi recenti l’artista è stato “riscoperto” come figura libera da etichette, la cui maestria tecnica e compositiva si accompagna alla capacità inventiva del genio.

Tale riscoperta muove da un antico assunto, quello elaborato da Stendhal, che nel tessere l’elogio di Canova ne esaltava il coraggio «di non copiare i greci e di inventare una bellezza così come avevano fatto i greci». Quella realizzata da Canova non è un’arte fredda: al contrario, emana una sensualità morbida e raffinata. Ed è un’arte capace non solo di fare propria e di personalizzare la tradizione passata, ma di forgiare intuizioni e movenze che anticipano la scultura dell’età moderna.

Ma i meriti di Canova non si esauriscono nell’esecuzione di un’opera d’arte, ma brillano anche nell’impegno a tutelarla. Eloquente, al riguardo, è il suo contributo, in qualità di ministro della Cultura, nel riportare a Roma il patrimonio artistico trafugato da Napoleone.

L’incarico gli fu affidato da Pio VII nell’ambito di una politica culturale che portò, per volontà del Pontefice, alla promulgazione di leggi di tutela delle opere d’arte.

Come ricorda Antonio Paolucci in un articolo sull’«Osservatore Romano» del 2 aprile 2009, Canova fu inviato a Parigi nell’estate del 1815 per fare l’inventario di numerose opere trafugate e per poi riportarle in patria.

L’artista fece «un buon lavoro»: allora era lo scultore più famoso e amato del mondo, sebbene Talleyrand, evidenzia Paolucci, lo chiamava «con fredda ironia e malcelato disprezzo monsieur l’emballeur (“il signor imballatore”).

L’eccelsa capacità tecnica e inventiva di Canova e lo studio meticoloso dei corpi, degli atteggiamenti, dei panneggi delle figure — che rappresentano un tutt’uno con la sua attività scultorea — emergono dalla copiosa produzione pittorica e soprattutto grafica dell’artista, cui il volume dedica ampio spazio, anche nella documentazione iconografica. Così come sono presenti nell’opera alcuni dei numerosi modelli originali dei marmi canoviani e dei bozzetti in terracotta che fanno della raccolta custodita nella Gypsotheca di Possagno, sua città natale, un unicum mondiale.
Uno dei meriti del volume è quello di aver posto l’accento su aspetti significativi e intriganti che fanno da sfondo ad alcuni capolavori canoviani.

La commissione dei monumenti funerari di Clemente xiv e di Clemente xiii a un artista di Venezia e non di Roma provocò accese rimostranze da parte degli scultori romani.

Nell’edizione del 19 maggio 1783 dei «Giornali» diretto da Vincenzo Pacetti queste due commissioni date a un «veneziano» vengono giudicate come una «cosa stravagante». E nello stesso articolo ci si chiede, con malcelata ironia, come «quel veneto» se la sarebbe cavata «in quella fossa dei leoni della scultura» che era la Basilica vaticana.

Evidentemente Canova se la cavò bene, anzi molto bene, tanto da meritare il plauso di Francesco Milizia, critico rigoroso e molto temuto all’epoca, il quale esaltò senza riserve il monumento funerario di Clemente xiv, elogiandone in particolare tre caratteristiche: riposo, eleganza e disposizione. Il tutto nel segno di quella “semplicità” già indicata da Winckelmann come supremo fine dell’arte.
Tra i capolavori più noti di Canova spicca il gruppo scultoreo Amore e Psiche, realizzato tra il 1787 e il 1793 e ora conservato al Louvre. L’opera, immortale nel raffigurare l’attimo che precede il bacio, non mancò di essere accolta con scetticismo in taluni ambienti artistici, perché ritenuta troppo tendente al barocco.

Tra i critici più agguerriti vi fu Carl Ludwig Fernow, che nel 1806 scrisse una dissertazione in cui rimproverò l’artista di non aver fornito «una visione appagante dell’opera, da qualunque parte si contempli». Ma non ci furono solo detrattori, ma anche estimatori, alcuni dei quali molto illustri: ispirato da quel gruppo scultoreo. John Keats scrisse la celebre Ode to Psyche.

E il principe russo Nikolaj Jusupov, venne in missione a Roma nel 1794, ovvero l’anno successivo al completamento di Amore e Psiche, su ordine dell’imperatrice Caterina ii di Russia, la quale voleva a tutti i costi Canova al servizio della propria corte. Lo scultore rifiutò, ma accettò di realizzare, su commissione del principe Jusopov, una seconda versione di Amore e Psiche.
Un capolavoro che, invece, non conobbe critiche fu la scultura Tre Grazie, nome assegnato a due opere ritraenti le tre famose dee della mitologia greca (Aglaia, Talia ed Eufrosine, figlie di Zeus) e realizzate tra il 1812 e il 1817. Ne esistono due versioni: la prima è conservata all’Ermitage di san Pietroburgo, mentre una sua replica è esposta al Victoria and Albert Museum di Londra.

La gestazione dell’opera, ricorda il volume, fu complessa, con tutta una serie di varianti in disegni e bozzetti che stanno a dimostrare l’accanimento di Canova nella ricerca della soluzione ritenuta migliore. Il primo di una lunga serie di studi presenta le tre figure come delle amiche che si sussurrano confidenze. L’artista, nel concepire l’opera, non distolse mai lo sguardo dall’amato Correggio, considerato il pittore per antonomasia della grazia. Ma al di là di un’ispirazione fattuale e di un debito di carattere intellettuale, il genio di Canova procede a briglia sciolta, lungo un solco assolutamente personale, in questa scultura che rappresenta il vertice della perfezione, in cui si fondono la lezione dell’antico e l’alba del nuovo. Fu la prima moglie di Napoleone, Giuseppina di Beauharnais, a invitare Canova a iniziare il gruppo scultoreo, come attesta una lettera del 1812. Ma Giuseppina non potè vedere le Tre Grazie poiché l’artista, che già nel 1813 si rammaricava di non poterle mostrare almeno un disegno dell’opera, ultimò la scultura nel 1817, ovvero tre anni dopo la morte della donna.

Gabriele Nicolò

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 12/04/2018