Il ’68 a Milano

La cronaca di quattro anni di violenze, scanditi da bombe, attentati, sangue, depistaggi, iniziati con la morte del poliziotto Antonio Annarumma e culminati con l’assassinio del commissario Calabresi

Tutto ebbe inizio nel febbraio 1968, quando, per scimmiottare gli studenti di Parigi, le organizzazioni studentesche legate al Pci occuparono l’Università di Milano. Dall’Università si passò ai Licei e, a dare l’esempio, fu ancora Milano, con l’occupazione del Liceo Parini nel mese di marzo ‘68.

Era iniziata la “contestazione”, abilmente diretta e guidata dal PCI e supportata dall’“intellighenzia”, che non scommetteva più una lira sulla tenuta della supremazia democristiana e che riuscì ad addormentare le coscienze italiane (non quelle francesi, presto rinsavite anche per merito del generale Charles De Gaulle) persino durante il calvario della Cecoslovacchia, invasa dalle armate sovietiche.

L’11 marzo 1969 avvenne il “sequestro” e il “processo” al professor Trimarchi dell’Università Statale di Milano, che aveva rifiutato di dare il “18 politico” ad alcuni studenti. Il professore venne sputacchiato, umiliato, sbeffeggiato da una banda di studenti, guidati da Mario Capanna.

Tutti gli altri docenti, sia della Statale sia della Cattolica, invece, si allinearono.

Il 25 aprile l’anniversario della Liberazione venne “festeggiato” con una serie di micidiali bombe ad alto potenziale, che esplosero nel padiglione Fiat alla Fiera di Milano e all’ufficio cambi della Stazione Centrale.

Per fortuna non vi furono morti, ma alla Fiera si registrarono ben venti feriti. In Centrale nessun ferito perché, al momento dell’esplosione, l’ufficio cambi era chiuso. Secondo la Polizia, le bombe erano opera dei gruppi anarchici, ma la Procura della Repubblica incriminò esponenti di Ordine Nuovo, dando così inizio alla saga dei bombaroli neri e dei “servizi deviati”, saga che dura tuttora sui cosiddetti “libri di storia”.

La violenza continuò con una miriade di piccoli e grandi episodi, finché, il 19 novembre, estremisti di sinistra in corteo dinanzi al Teatro Lirico, dove era in corso un comizio della CGIL, attaccarono le camionette della Polizia, armati di tubolari d’acciaio sottratti in un cantiere edile.

Uno dei tubolari, scagliato con ferocia su una jeep, trafisse alla tempia e uccise l’agente Antonio Annarumma, di 21 anni.

Mario Capanna si presentò ai funerali dell’agente e venne sottratto al probabile linciaggio ad opera dei colleghi del povero Annarumma dal commissario Luigi Calabresi.

Nei giorni seguenti si verificarono disordini e aggressioni in tutta la città sempre ad opera del Movimento Studentesco, nonché scontri tra studenti di sinistra e “sanbabilini”, un drappello di irriducibili giovani anticomunisti viscerali, molti dei quali aderenti al MSI, che si riunivano ogni pomeriggio in piazza San Babila.

Ma il peggio era in arrivo. Il 12 dicembre 1969 scoppiò la bomba all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Fu la proto strage degli Anni di piombo: 16 morti e 88 feriti.

Quel pomeriggio altre bombe scoppiarono a Roma e a Milano, ma non fecero morti, perché le cariche di tritolo erano state regolate in un orario in cui gli istituti di credito erano chiusi al pubblico.

Purtroppo la banca milanese aveva fatto un’eccezione proprio per quel pomeriggio, cosa della quale evidentemente gli attentatori non erano a conoscenza. Volevano solo fare il botto, coprirono di sangue Milano e l’Italia intera.

Seguirono ore e giornate drammatiche. Il 15 dicembre morì in Questura, precipitando dal quarto piano, l’anarchico Pinelli, mentre l’anarchico Valpreda venne arrestato dopo essere stato indicato dal tassista Rolandi (sicuramente in buona fede, come attestava la sua iscrizione al PCI) come l’uomo della bomba. Rolandi pagò caro il suo coraggio e la sua onestà: fu messo alla berlina dalla stampa “antifascista” (e, come tale, filo-anarchica) e ne morì di crepacuore l’anno dopo.

Il drammatico quadro della situazione, specialmente a Milano, capitale della violenza rossa, lo si ebbe con il famoso rapporto del Prefetto Libero Mazza, steso il 22 dicembre 1970, diretto al governo, ma reso noto soltanto il 30 aprile 1971.

Nel suo rapporto, Mazza segnalava al governo la presenza a Milano «di circa 20 mila estremisti inquadrati in gruppi prettamente rivoluzionari, che propugnano la lotta al sistema e si prefiggono di sovvertire le istituzioni democratiche, consacrate dalla Carta Costituzionale, attraverso la violenza organizzata».

Mazza suggeriva l’unica soluzione possibile: decretare lo scioglimento e la messa fuori legge dei gruppi, primo fra tutti Lotta Continua.

Per quel documento, una valanga di critiche piovve addosso al Prefetto di Milano, accusato apertamente da tutta la sinistra, dagli intellettuali (compresi quelli che ancora oggi strombazzano da destra), persino dalla stampa cosiddetta “indipendente” (in primis Repubblica e Il Giorno) di essere «un fascista». Mazza fu costretto a dare le dimissioni. Ciò rafforzò la violenza.

Quasi a dare ragione a Mazza, nel breve periodo intercorso tra la stesura e la diffusione pubblica del suo rapporto, avevano fatto la loro clamorosa comparsa a Milano le Brigate Rosse con un attentato spettacolare: otto bombe avevano fatto saltare in aria otto autotreni (senza vittime, perché in quel momento non c’erano persone attorno) all’interno della pista di prova della Pirelli a Lainate.

Il 23 febbraio 1972 ebbe inizio il processo-burla contro Valpreda per la bomba di piazza Fontana. Pochi giorni dopo – si noti la coincidenza, il tempismo perfetto – un gruppetto di magistrati spiccò un mandato di cattura contro Pino Rauti per organizzazione eversiva. Era l’inizio della saga «cervelli di destra, braccia di sinistra», destinata a trasformarsi in seguito in “cervelli di destra, braccia di destra”.

Il 15 marzo il miliardario Giangiacomo Feltrinelli saltò in aria sul traliccio di Segrate, che stava minando per far precipitare Milano nell’oscurità. Feltrinelli, divenuto amico di Fidel Castro e “Che” Guevara, era convinto che una dittatura fascista stesse per piombare sull’Italia e aveva creato i “Gap” (Gruppi d’azione partigiana), coadiuvato da alcuni vecchi partigiani comunisti: quelli secondo i quali di sangue dei vinti ne era stato versato troppo poco. “Potere Operaio” annunciò: «Un rivoluzionario è caduto».

Il 5 maggio 1972, a Pisa, gli anarchici contestarono un comizio elettorale del Msi. Vi furono cariche della Polizia, l’anarchico Serantini rimase gravemente ferito e morì due giorni dopo in carcere. Per vendicarne la morte, il vertice di Lotta Continua decise di ammazzare il commissario Luigi Calabresi.

Così il 17 maggio 1972 fu ucciso a Milano quell’innocente, il cui martirio è sempre d’attualità e non soltanto per i cippi, le lapidi e gli spazi televisivi a lui tardivamente ed impropriamente dedicati (basti rilevare che sul cippo di via Cherubini si può leggere che cadde «ucciso da mano terrorista», testuale, e non “ucciso da Lotta Continua”), ma soprattutto in seguito all’intervista (guarda caso sfuggita alla “grande stampa”) di Claudio Sabelli Fioretti a Giampiero Mughini, nel corso della quale si parla dell’«ex-capo del servizio d’ordine milanese di Lotta Continua, uno di quelli che sanno da chi è stato ucciso il commissario Calabresi, divenuto un grande manager del gruppo editoriale berlusconiano»

. Chi era questo tizio? Tutti gli ex di Lotta Continua lo sanno. Ma non lo dicono.

Luciano Garibaldi

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 04/04/2018