Tutto il valore è nei nostri dati

Facebook e Cambridge Analytica

Lo scandalo Facebook e Cambridge Analytica porta ancora una volta in evidenza due fattori. Il primo è che la comunicazione politica ormai è strutturata per essere individuale: il dialogo è rivolto a delle masse, raramente ormai a un popolo, inteso come somma di individui con una coscienza della loro collettività.

È di questo avviso l’analisi di Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera di ieri: “ma qui il punto non è stabilire se sono stati commessi reati. Forse è anche più grave se non ce ne sono stati perché questo vorrebbe dire che raccogliere le informazioni private di 50 milioni di elettori, filtrarle attraverso le analisi di psicologi appositamente reclutati per analizzarli, costruire il profilo delle vulnerabilità di ognuno per poi sussurrare messaggi diversi, ma con un unico obiettivo finale a ogni singolo elettore, fa ormai parte della fisiologia, non della patologia delle nostre società aperte”.

Il secondo aspetto è l’ennesima riprova che in questo XXI secolo i dati sono da annoverare tra le risorse economiche ‘tradizionali' al pari di petrolio, oro, coltan etc.

Lo dimostra il valore in borsa di Facebook per cui sono i numeri di utenti ciò che conta: più è vasta la platea più chi investe nella pubblicità è ingolosito. Scrive Raffaele Barberio, Presidente di Privacy Italia, su Huffington Posto: “Facebook vale oltre 500 miliardi di dollari. Gli unici asset patrimoniali significativi di cui dispone sono i server su cui transita il fiume immenso di dati che maneggia. Un valore del tutto scarno rispetto alla immensa capitalizzazione di Borsa. Tutto il resto del suo valore è conferito dai nostri dati”.

Una proposta di soluzione è quella del sociologo Evgenij Morozov intervistato da Linkiesta: “Chiedere trasparenza è troppo poco. È necessario invece che le persone siano proprietarie dei propri dati. Che abbiano accesso libero a questi dati. E che le aziende paghino per averli”.

L.V.C.

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Articolo pubblicato il 21/03/2018