La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Il dramma di Porta Palazzo

Nel corso di altre ricerche, mi sono imbattuto in due articoli pubblicati, a distanza di circa un anno, nella cronaca nera del giornale “La Stampa”, entrambi intitolati “Il dramma di Porta Palazzo”: siamo negli anni 1929 e 1930 e le due vicende, che in passato sarebbero state descritte in forma più sommaria, paiono destare una maggiore interesse da parte del cronista giudiziario. Lo vediamo infatti, in questo primo caso, mentre si avventura in un approccio psicologico della vicenda, sia pure sommario, quando descrive le dramatis personae della vicenda e, nei due casi, mentre segue con attenzione le perizie psichiatriche che - abilmente sfruttate dagli avvocati difensori - vengono ad assumere al momento del processo un ruolo determinante per la loro evidente influenza sulle giurie popolari.

Il primo “Dramma di Porta Palazzo” è descritto da “La Stampa” di giovedì 30 maggio 1929.


Il dramma che ha avuto ieri il suo epilogo giudiziario in Corte d’Assise si svolse il 24 settembre scorso, in piazza Emanuele Filiberto. Dramma della malavita, caratterizzato e dominato dalla brutalità e originato da quegli odii inestinguibili e tenaci, se pure apparentemente dissimulati, che dividono spesso gli appartenenti al mondo equivoco: il tappezziere Giovanni Paolo Bianco, di anni 25, abitante in corso Regina Margherita 144, vibrava una coltellata al pregiudicato Giacomo Scarafiotti, di anni 45, producendogli una lesione all’addome, in seguito a cui questi decedeva una settimana dopo all’Ospedale San Giovanni.

Il delitto si scatenò dopo una serie di litigi, la cui causa era costituita da una donna di facili costumi, Clementina Solavaggione, verso la quale entrambi i protagonisti del dramma avevano delle tenerezze. Senonché il giovane Bianco era giunto a stringere rapporti più saldi colla ragazza e ciò tornava poco gradito all’anziano calderaio che amava atteggiarsi a «protettore» della Solavaggione, della quale, talvolta, si dichiarava anche parente. Questo dissidio non impediva però ai tre di trovarsi spesso insieme nelle osterie della località. E lo Scarafiotti faceva senza economia e senza pentimenti le spese per tutti. I due - a dispetto della rivalità tra loro esistente - non avevano apertamente litigato fino al sabato 22 settembre, giorno in cui scoppiò tra di essi un violento alterco.

La domenica fu di nuovo passata in tranquillo accordo, ma il litigio si riaccese il lunedì in una bottiglieria. Per porvi fine, il Bianco e la donna uscirono dall’esercizio ed andarono in un’altra osteria di corso Regina Margherita 127, dove però venivano raggiunti ben presto dallo Scarafiotti. Il litigio fu ripreso e l’oste che si interpose per troncarlo, fu dal calderaio minacciato. Quest’ultimo usci, ma ritornò, armato di coltello, dicendo di voler aggiustare i conti. Intervenne un’altra volta l’oste che fece uscire il Bianco e la Solavaggione da una porta del retrobottega.

Ma questo scioglimento non era di soddisfazione per il tappezziere, che fu invaso dall’idea di vendicarsi. Egli si staccò dalla donna e si diresse di corsa sotto la tettoia di piazza Emanuele Filiberto [piazza della Repubblica], dove a un banco di vendita acquistò un coltello. Quindi andò alla ricerca dello Scarafiotti, che trovò seduto su una panca del corso Regina Margherita.

L’inizio della discussione non fu concitato, si potrebbe dire quasi pacifico, tanto che i due, a diversi testimoni, diedero l’impressione che conversassero amichevolmente. D’un tratto si alzarono, dirigendosi verso Porta Palazzo. Ma ad un certo momento il Bianco sostava e ponendosi di fronte al calderaio, gli immergeva l’arma nell’addome.

- Toh, prendi questo - esclamava - tanto io sono stato quattro volte al manicomio.

Alle grida del ferito accorsero la guardia municipale Michele Viglio ed altri che fermarono il Bianco, il quale cercava di darsi alla fuga, e soccorsero lo Scarafiotti, trasportandolo all’ospedale. Sei giorni dopo il disgraziato spirava per l’insorgere di una peritonite diffusa dovuta alle conseguenze della terribile ferita infertagli. I periti medico-legali stabilirono che il feritore dovette trovarsi di fronte alla vittima, la quale fu colpita dal basso in alto.

Ribadendo le dichiarazioni fatte in istruttoria, il Bianco ha affermato dinanzi ai giurati che avendo invitato lo Scarafiotti a recarsi con lui nei prati, per risolvere mediante un duello rusticano la questione, l’altro aveva d’improvviso aperto il coltello, che già teneva in mano, tentando di ferirlo. Egli allora aveva estratto a sua volta l’arma che teneva in tasca e per difendersi ne aveva vibrato un colpo all’avversario. Ma questa versione che prospettava una tesi di legittima difesa non ebbe alcun suffragio dalle testimonianze e dalle risultanze del dibattimento. La guardia municipale Viglio, che fu il primo ad accorrere, narrò di aver assistito a pochi metri di distanza alla tragica scena: i due procedevano tranquillamente, quando vide il Bianco scostarsi, estrarre l’arma e colpire il compagno proditoriamente. Durante l’istruttoria il Bianco, che fu effettivamente più volte internato a Collegno perché affetto da cocainomania, venne sottoposto ad accertamenti psichiatrici, eseguiti dal prof. Rivano. Il perito ha definito il Bianco un degenerato psichico, che presenta alterazioni gravi della volontà e del pensiero. Suo padre fu già ricoverato al manicomio per alcoolismo cronico ed uno zio paterno fu ricoverato in una casa di salute per malattia mentale. Il Bianco - ha soggiunto il perito - può trovarsi in periodi accessuali di vera e propria alienazione mentale. È da ritenersi quindi che egli abbia agito in condizioni da scemare grandemente la libertà dei suo atti, senza escluderla.

Ma queste conclusioni peritali sono state contrastate dalla pubblica e dalla privata accusa. Il patrono di P. C. avv. Quattrocolo, ed il P. G. comm. Capuccio, colla tesi della legittima difesa hanno combattuto anche quella della parziale responsabilità dell’imputato, mettendo in risalto come sia stata volontaria da parte di questi la ultima ricerca della sua vittima, volontario e preordinato l’acquisto dell’arma che servi per il ferimento, volontario altresì l’invito all’avversario di recarsi in luogo appartato, volontaria infine e per di più proditoria l’aggressione fulminea toccata all’ucciso.

I difensori avvocati Viancini e Giulio, dall’esame delle modalità con cui si era scatenato il dramma, hanno tratto argomenti per convalidare la tesi di parziale responsabilità affacciata dal responso del perito psichiatra. Essi hanno invocato un verdetto mitigato dalla concessione della diminuente della semi-infermità di mente. Rispondendo affermativamente al quesito della colpevolezza, i giurati hanno dichiarato che il Bianco agì in istato di parziale responsabilità per infermità di mente e gli hanno accordato infine le circostanze attenuanti.

Il presidente cav. Bobba ha condannato l’imputato a 7 anni, 6 mesi e 5 giorni di reclusione ed ai danni, accordando una provvigionale di 3000 lire alla Parte Civile.


A quel tempo, il recente clamoroso caso dello “Smemorato di Collegno” ha contribuito a far conoscere al grosso pubblico l’importanza progressivamente assunta dalle perizie psichiatriche in campo giudiziario, anche se non rappresentavano una reale novità.

Un primo strepitoso esempio risale addirittura al secolo precedente, quando dal 27 giugno 1877 al 14 luglio 1877, a Torino, presso la Corte d’Assise si è svolto il processo che vede come principale imputata una donna, Luigia Sola Trossarelli, accusata di essere la mandante dell’uccisione del suo ex amante, Francesco Gariglio, avvenuta nel 1876 in via Artisti, dove Gariglio possedeva una fabbrica di cioccolato. Siedono sul banco degli imputati anche i complici della Trossarelli, tra cui il facchino esecutore materiale del delitto.

Luigia Trossarelli è uno dei primi soggetti criminali femminili studiati da Cesare Lombroso, giunto a Torino nel 1876, come professore ordinario di medicina legale presso l’Università: anche sulla base della perizia che ha eseguito sulla Trossarelli, Lombroso metterà nero su bianco il suo studio “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, apparso nel 1893 e scritto in collaborazione con l’allievo, e genero, Guglielmo Ferrero.

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Articolo pubblicato il 05/02/2018