Torino - Le palazzine dell’ex Moi torneranno ai profughi.

Il progetto punta a un nuovo modello di housing . La Circoscrizione: “Che non si ripeta l’autogestione”.

La frase è inserita nel cronoprogramma del Progetto Moi, da settembre 2018 ad agosto 2020. «Sessanta inserimenti abitativi nelle prime due palazzine ristrutturate». E non ci sono dubbi di sorta: per palazzine si intendono proprio quelle occupate di via Giordano Bruno.

Insomma, alla fine dello «sgombero dolce», una volta superate le contestazioni che ad oggi non rendono possibile proseguire alcun tipo di trattativa, almeno una parte dei migranti faranno ritorno negli spazi di sempre. Non tutti, certo, ma è dagli stessi rappresentanti interistituzionali - il progetto vede la partecipazione di Prefettura, Regione, Città metropolitana, Comune e Compagnia di San Paolo - che arriva la conferma di voler tentare, proprio all’interno del complesso olimpico, un nuovo modello di housing sociale, allargato anche a realtà migratorie diverse da quella dell’Emergenza Nordafrica.  

Il piano non piace.  

Forse non è esattamente quello che si aspettavano gli abitanti del Lingotto, i politici e i comitati di quartiere. Di certo, il piano non piace nemmeno al Comitato di solidarietà rifugiati e migranti, che cita questo passaggio nella relazione presentata ai rappresentanti interistituzionali lo scorso 12 dicembre, durante la tavola rotonda in corso Corsica, convocata dopo il crescere delle tensioni e la prima chiusura degli uffici del project manager.

Più che critiche, il comitato ha presentato un bocciatura totale, dettagliata punto per punto. Ha chiesto alla sindaca Chiara Appendino una partecipazione più diretta e di «ridiscutere l’impianto progettuale dalle fondamenta», superando l’idea di esperienze di lavoro temporanee, da 6 a un massimo di 12 mesi, e di allontanamenti verso nuove abitazioni anche queste precarie.

È una questione di numeri, tira le somme il Comitato, riferendosi proprio ai conti fatti dal Progetto Moi - dove Moi sta per Migranti, un’opportunità di inclusione - che prima stima in 1500 le presenze nelle palazzine occupate, poi scese a 750 dopo la raccolta di adesioni al piano di ricollocamento. Ma anche sommando gli inserimenti lavorativi nei cantieri navali, i percorsi da attivare nell’area di Torino, le borse lavoro e gli inserimenti abitativi, si arriva a una cifra massima di 430 persone coinvolte.  

Ma ora tutto si è fermato.  

«Quando ci è stato presentato il progetto era luglio - spiega il presidente della Circoscrizione 8, Davide Ricca - E ci è stato subito chiarito che i numeri inseriti in quelle pagine erano ancora provvisori: servivano per ottenere i finanziamenti». E la decisione di ricollocare in via Giordano Bruno una parte degli occupanti, ultimato il restauro delle prime due palazzine? «Ci è stato garantito che in ogni caso non si verificheranno più episodi di autogestione. Ma il vero problema, adesso, è che tutto si è fermato. E se quegli uffici non riapriranno al più presto, allora ogni sforzo sarà stato inutile».  

Resta, sullo sfondo, la difficoltà di porre le basi di una collaborazione stabile tra le tante parti chiamate in causa. Perché la partita non si gioca soltanto tra gli occupanti, disponibili o meno al trasloco, e la squadra di mediatori culturali. Nei comitati ci sono giovani studenti, ma anche professori in pensione, medici, giornalisti e psicologi. E ci sono i centri sociali, che un mese fa, durante la liberazione dei sotterranei, sono tornati a fare la voce grossa.  

lastampa.it

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Articolo pubblicato il 28/12/2017