26 Dicembre 1916.

Il Natale sospeso di Giuseppe Ungaretti.

Si riporta qui di seguito il testo di un componimento, Natale, scritto dall’imperituro Giuseppe Ungaretti (1888-1970) il giorno di Santo Stefano del 1916 mentre, in licenza dal fronte, si trova ospite presso amici partenopei. Riportata inizialmente in rivista nel 1918, l’anno successivo la lirica confluisce nel compendio poetico dal titolo Allegria di naufragi, pubblicato dall’editore fiorentino Vallecchi.

 

Natale

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare


 

Il primo elemento interpretativo saliente della poesia si evince già dal titolo, Natale. In un momento in cui l’Europa è sconvolta dalla snervante tragicità della guerra di trincea, il periodo natalizio, lungi dall’essere sinonimo di festa e di ricreazione, assurge piuttosto a sospeso momento di stasi. Quasi una parentesi di innaturale e sicura calma, contrapposta alla tumultuosa precarietà della vita al fronte. In proposito, sorge spontaneo ricordare subito altri celeberrimi versi ungarettiani, sintomatici dell’effimera esistenza umana di fronte all’orrore bellico, esistenza definita caduca, esattamente come la verzura autunnale: Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie (Soldati, 1918).

Tornando alla lirica Natale, Ungaretti reclama per sé la possibilità di godere qualche tempo dell’intimo clima famigliare, evitando di immergersi subito nel caotico intrico di viuzze precipuo di una grande città, il quale, probabilmente, non fa che suscitare in lui il penoso ricordo del dedalo di fossati caratterizzante la trincea.

Il Poeta è stanco, svuotato, arreso a un’immobilità senza tempo e desideroso di essere ivi obliato. Di qui l’accorato invito a lasciarlo inerte, come un oggetto dimenticato, con distrazione e svogliatezza, da qualche parte. Per lui l’abbandonarsi rappresenta una condizione invidiabile, in quanto spersonalizzata e scevra di qualsivoglia sentimento, ivi compresa la diuturna sofferenza di un soldato al fronte.

Eppure, nell’alveo della plastica antitesi fra l’esterno (dunque la città, ingarbugliata, caotica e, se vogliamo, proprio per questo fredda e algida, reminiscente del teatro di conflitto) e l’interno (l’abitazione degli amici, lineare e armonica, calda oltreché calorosa nell’accoglierlo), Ungaretti non esclude del tutto di potersi riappropriare di una dimensione più tenera e spirituale, propensa ad accogliere quanto di buono possa giungergli dal soggiorno napoletano.

Ecco allora che il Poeta sottolinea con malcelata commozione il “caldo buono”, alludendo al rasserenante trasporto del clima amicale, contrapposto alla bruciante bocca di fuoco di cannoni e mitragliatrici.

In quest’atmosfera sospesa ed eterea, i migliori compagni divengono dunque “le quattro capriole di fumo del focolare”, emblematiche di una realtà pacifica e tranquilla, capace solo di dare tepore senza, al contempo, invocare o ricordare pensieri plumbei e funesti.

I sentimenti di Ungaretti sono efficacemente veicolati dal lessico della lirica, spezzato e frammentario, spesso concentrato in un solo vocabolo, così da meglio sottolineare la mole di turbinosi pensieri da cui il Poeta si sente gravato e per i quali, come detto, invoca il riposo dell’oblio.

In Natale si respira dunque tutta la spiritualità dibattuta di Giuseppe Ungaretti, in bilico fra un recente passato di lotte feroci (sospeso, sì, purtuttavia destinato invariabilmente a far ritorno, in modo tragico, nel giro di breve) e un presente atemporale, dimentico di tutto ma forse, proprio per questo, ancora più drammaticamente “tanto attaccato alla vita” (da Veglia, 1915).

 

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Articolo pubblicato il 26/12/2017