Identità e campanilismo

Calcio, lingua, immigrazione: quando l’identità provoca reazioni diverse

Quando mi capita di leggere in lingua spagnola (anzi castigliana, viste le divergenze identitarie di questi tempi in Spagna) mi colpiscono alcuni costrutti linguistici grammaticalmente corretti in quella lingua ma scorretti in quella italiana, seppur nel sud del nostro Paese vengano abitualmente usati.

Ecco che frasi come tengo famiglia, glielo dico a lui, chiamo a mia sorella, il treno sta in ritardo, a me mi piace, vengono abitualmente utilizzate dagli Italiani del Meridione che, guarda caso, fu parte dell’Impero Borbonico spagnolo da cui seguì l’influenza linguistica.

Le invasioni di cui siamo stati vittime nei secoli hanno segnato inevitabilmente l’evoluzione della nostra identità, facendo così in modo che quell’essere e sentirsi Italiani non abbia una definizione statica, fissa, ma abbia (avuto) una sua dinamicità col passare del tempo.

Nonostante, dunque, le invasioni e “l’imbastardimento” linguistico, non è che oggi ci sentiamo meno italiani di quanto non lo fossero i nostri avi di secoli fa.

Prendiamo ora l’esempio del calcio. L’ultima volta in cui l’Italia vinse un trofeo per club fu nel 2010 con l’Inter, quando tutta la formazione scesa in campo era costituita da stranieri e il cui allenatore, Josè Mourinho, era anch’egli straniero. Ciò nonostante, gli Interisti, e buona parte degli Italiani, furono contenti per quella Coppa vinta dall’Italia.

Cosa significava, e ancora oggi significa visto che le maggiori squadre nostrane hanno quasi tutti stranieri in formazione, essere tifosi italiani di una squadra che di italiano ha solo più la sua storia e il fatto di giocare nel campionato del Belpaese?

L’esempio della lingua e delle squadre di calcio piene di stranieri, tra cui anche diversi extracomunitari, sollevano grossi interrogativi sul perché ci spaventiamo per gli immigrati che arrivano nel nostro Paese, ci spaventiamo sull’invasione di termini stranieri nella nostra lingua, ci spaventiamo per le contaminazioni culturali che avvengono per via della globalizzazione.

Temo che le nostre inquietudini identitarie nascano solo in conseguenza di un lungo periodo di crisi, di diseguaglianza sociale, di abbassamento del nostro tenore di vita, di disillusione verso la politica, di avversione per l’Europa Unita, altrimenti non si spiegherebbe perché anni fa osannassimo tutti quel Balotelli che umiliò la Nazionale tedesca ai Mondiali o perché non ci facciano effetto i vari oriundi che anno dopo anno entrano a far parte della selezione azzurra: il calcio, come specchio del Paese, è poi così tanto diverso dagli altri contesti identitari nei quali dovremmo essere più coesi e tolleranti?



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Articolo pubblicato il 26/11/2017