Cicale e Formiche

Breve apologia della laboriosità e della parsimonia in Letteratura: tra favole, parabole, selve dantesche e luminosi spunti di pensiero liberale

Cuius faber suae quisque fortunae est”: così recita un noto aforisma latino. Il fatto che ciascun individuo debba considerarsi artefice e responsabile del proprio destino, costituisce un trait d’union comune a molteplici aspetti dell’esistenza umana, tra cui spicca subitamente la sfera economica (con i corollari socio-politici che ne discendono).

La Letteratura, variamente concepita e scandagliata, si è a ogni epoca preoccupata di fornire exempla di morigeratezza e laboriosità: con fini moralizzatori, di incitamento e di mimesi oppure per palesare e condannare le conseguenze di atteggiamenti nefasti, spintisi lontano da quell’equilibrio per cui “in medias res stat virtus”.

Nel solco di un’epoca, la nostra, in cui par in generale sempre più invalso reclamare a squarcia gola “diritti”, senza accostarvi la speculare dicitura “doveri”, può forse esser utile richiamare gli animi alla responsabilità (collettiva e individuale), presentando un breve compendio di esemplificazioni significative.

Una delle declinazioni letterarie più celebri attiene all’universo del fanciullo e ha per viatico la celeberrima favola intitolata “La Cicala e la Formica”, immaginata in primis dal greco Esopo e poi riproposta con successo, svariati secoli più tardi, dallo scrittore francese Jean de La Fontaine.

In essa si narra dell’improvvida Cicala la quale, desiderosa solo di cantare e di sollazzarsi al sole estivo, viene inevitabilmente sorpresa senza cibo dai rigori dell’inverno. A seguito del tentativo di racimolar qualche cosa presso il desco dell’operosa Formica (che, invece, ha previdentemente fatto scorte durante la bella stagione), la Cicala si vede ricusare la richiesta di aiuto, dovendo alla fine prendere coscienza di come i canti goderecci e irresponsabili dell’estate siano divenuti cagione di un triste e digiuno balletto invernale.

Attraverso la forma archetipica e moralizzatrice della favola, s’intendono in questo senso scoraggiare tutti quei comportamenti materialmente incauti e non preveggenti, adottati, sul momento, senza alcuna proiezione (e attenzione, anche economica) sugli effetti futuri che da essi potrebbero scaturire. Insieme alla neghittosità della Cicala viene altresì condannato, rifiutandolo, il comodo invocare ex post l’assistenza altrui, concepito come un irresponsabile e diseducativo avallo all’assenza di avvedutezza e alle facilonerie di quanti sperano di veder sempre supplite le proprie consapevoli mancanze.

Allargando il campo di indagine dal libero operato dei singoli alla vita socio-politica della collettività, in questo senso si potrebbe facilmente recriminare circa l’utilità di manovre cosiddette bonus, regalìe finalizzate (per costruzione) a fungere da mero e temporaneo palliativo, senza alcuna influenza fattiva e duratura sul problema e sulle sue cause.

All’uopo il compianto Luigi Einaudi, uomo politico, statista ed economista di sterminata cultura (nonché autore di prose e articoli dallo stile nitidissimo e dalla disarmante chiarezza), in uno dei suoi innumerevoli scritti rivendica con fermezza la centralità dell’uomo prudente, operoso e risparmiatore quale fulcro della sua concezione antropologica della società.

Il liberale piemontese, nell’esplicitare i principi e gli ideali che informano e permeano la sua teoria economico-politica, rifugge qualsivoglia tentativo di supporto improntato al mero assistenzialismo e all’aiuto fine a se stesso, rivendicando “lo scetticismo invincibile anzi quasi la ripugnanza fisica per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare […] con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione”.

Per contro, egli enfatizza “la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi”. In questo senso, la consapevole operosità della Formica contrapposta al lassismo orbo della Cicala, diviene nell’opera di Einaudi l’encomio del liberalismo fondato sull’etica del lavoro o, per riprendere un’espressione di Piero Gobetti a lui cara, “sull’etica del sacrificio e del risparmio”. Donde la libertà economica assurge a ineludibile precondizione per la libertà di scelta e di iniziativa politica.

D’altra parte, la responsabilità nei confronti di se stessi, dei propri beni in fieri e del proprio avvenire, innesca una predisposizione virtuosa, capace di sortire effetti benefici nei rapporti di interesse fra i singoli e, più in generale, a livello di conduzione del bene comune.

Infatti, da una parte l’esaltazione del primato della serietà porta Einaudi a individuare nel ceto medio operoso, pragmatico e non dottrinario, sempre finalizzato a un obiettivo (epigono di quel pater familias di antica memoria vocato al lavoro e al risparmio “non soltanto in vista di un maggior reddito futuro, ma […] per migliorare la considerazione e la stima […] presso i propri simili” e “per accrescere il benessere della propria discendenza non meno, ed anzi forse più, del proprio”) il candidato ideale al ruolo di legislatore.

Dall’altra, specularmente, la letteratura evangelica offre, con la parabola dei talenti, un fulgido esempio di fruttifero e profittevole spirito di iniziativa. In questo senso, tale narrazione potrebbe quasi essere assurta a manifesto del Liberalismo ante litteram, chiaramente con i dovuti distinguo legati alla società e alla forma mentis del tempo.

Di nuovo, utilizzando una forma letteraria, la parabola, archetipica e moralizzatrice proprio come la favola di cui si è precedentemente dissertato, l’evangelista Matteo sottolinea la probità e la laboriosità di due servi, definiti “buoni e fedeli”, perché in grado di investire e di accrescere il patrimonio affidato dal padrone. Il loro operato si contrappone al lassismo di un terzo servitore, “malvagio e infingardo” che, incurante della fiducia accordatagli, si limita semplicemente a conservare, sotterrandolo, quanto ricevuto.

Ciò gli procura l’ira del padrone, il quale dà ordine di sanzionare esemplarmente “il servo fannullone”. Estendendo l’interpretazione di questa parabola alla società moderna e mettendola in relazione con l’esprit del già menzionato pensiero politico einaudiano, si chiarifica meglio quel sentimento per cui, alla prova dei fatti, il compianto statista piemontese individua proprio nei probi e laboriosi servitori (intesi qui dello Stato), ovvero nelle “Formiche”, i più atti a occuparsi del bene collettivo, in quanto “essi ripongono la somma dell’arte di stato nel governar bene la cosa pubblica, intendendo per buon governo quel modo saggiamente prudente di amministrare che usano nelle faccende private”.

Interpretando la figura della Cicala non solo come improvvida pianificatrice del proprio destino ma anche come emblema di un potenziale benessere (l’abbondanza estiva) a cui si rinuncia per negligenza (l’inetto canto sugli alberi), il pensiero si posa sulla figura dello scialacquatore (dei propri beni ma, allargando il campo, anche delle proprie possibilità, del proprio tempo nonché delle proficue opportunità che il ruolo specifico di ciascuno garantirebbe). Dal punto di vista letterario, cotale personaggio è senza dubbio tratteggiato in modo mirabile da Dante Alighieri, il quale non a caso lo colloca nel secondo girone del settimo cerchio infernale (canto XIII) insieme ai suicidi, impostando un evidente parallelismo fra la violenza e lo sperpero delle proprie disponibilità e la violenza nei confronti del proprio corpo.

Così come in vita gli scialacquatori dissiparono e smembrarono con insensatezza quanto in loro possesso, così nell’aldilà le loro membra nude e graffiate sono divelte brano a brano da “nere cagne, bramose e correnti come veltri ch’uscisser di catena”.

Per dovere di completezza, urge a questo punto precisare quanto la Letteratura (e, più in generale, la Storia e l’indole dell’Uomo) sia ricca anche di esempi agli antipodi. Da una parte, dunque, l’estrema prodigalità degli scialacquatori; dall’altra, invece, la pomposa superbia degli avari (si pensi allo Scrooge di Dickens oppure al compare Mazzarò del Verga) i quali concepiscono il benessere e l’accumulo di ricchezze come fine a se stesso (in proposito, Einaudi parlerebbe criticamente di “etica del successo”, contrapposta a quella fondata appunto sul lavoro e la dedizione costanti).

Ambedue gli atteggiamenti sono però, per motivi diversi, sterili e improduttivi. L’uno dilapida possibilità e risorse in progetti inefficaci (quando non deleteri), l’altro congela energie e capitali in un altrettanto infruttifero immobilismo, votato solo all’accumulo autoreferenziale (per la serie, riferita appunto al personaggio immaginato da Verga, “roba mia, vientene con me”).

In chiusura, abbandonando il comodo terreno di gioco della Letteratura e calandosi nella ben più procellosa arena della stringente attualità, occorre precisare come sia certo auspicabile richiamare una volta di più le coscienze a quel principio per cui ciascuno è precursore della propria sorte, verosimilmente più feconda se improntata a morigeratezza e impegno continui.

Peraltro, l’oratore latino Cicerone sottolinea, in proposito, come la parsimonia debba ritenersi il più rilevante dei capitali posseduti (“Magnum vectigal parsimonia est”). Purtuttavia non ci si può esimere dal constatare come i presenti travagli della società (frutto anche di una invereconda gestione della cosa pubblica, portata avanti in modo dissennato da cicale politiche nonché da scialacquatori dei propri poteri e delle proprie possibilità istituzionali) abbiano determinato una situazione per cui l’esercizio di quella laboriosità, tanto decantata da Einaudi, risulta sempre più preclusa dalla carenza o dalla perdita del lavoro.

Per non parlare dei diffusi, incresciosi e dilaganti sperperi di denaro pubblico…, a cui Einaudi contrapporrebbe la ponderatezza del risparmio, ritenuto presupposto fondamentale della crescita, in quanto riserva di ricchezza (o “provvista”, nel lessico specifico della Formica) da cui attingere per finanziare gli investimenti e dunque, in ultima analisi, per gettare il seme del benessere futuro.

Senza la trasversale adozione di un progetto responsabile, lungimirante, previdente e conscio dell’importanza di tessere giorno per giorno l’ordinata tela del proprio domani (in ambito sia pubblico sia individuale), tutti i cittadini, siano essi Formiche oppure Cicale, continueranno invariabilmente a ballare nel gelo di una società immiserita,  laddove purtroppo sempre “sarà pianto e stridore di denti”.

Sara Garino

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Articolo pubblicato il 17/11/2017