La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

L’ingente furto di circa di sedici mila lire in via Fabro n. 4

Questa storia potrebbe essere a buon diritto inserita nel filone dei “ladri sfortunati”, visto che l’autore di un clamoroso furto si espone all’arresto per amore e il suo complice addirittura si costituisce. Ci narra questa curiosa vicenda il cronista giudiziario Curzio, nella sua Rivista dei Tribunali, pubblicata nella Appendice della «Gazzetta Piemontese» del 1° maggio 1875.

Tutto inizia sabato 26 luglio 1873, quando Giuseppe Ghisolio rientra a ora tardissima, dopo la mezzanotte, nella sua abitazione al pianterreno di via Fabro n. 4. Ghisolio trova la porta del suo alloggio scassinata e, con una stretta al cuore, corre in camera da letto, dove tiene i suoi averi. Qui trova il forziere staccato, con i cassetti aperti, e constata la mancanza della somma di lire 1.500, in biglietti di banca, e di varie cartelle del Debito Pubblico, per una rendita complessiva di mille lire, cartelle tutte al portatore e quindi molto difficili da recuperare.

Si tratta di un ingente furto, del valore di circa 16.000 lire. Così Ghisolio fa pubblicare sulla «Gazzetta Piemontese» di lunedì 28 luglio 1873, nella quarta pagina, quella degli annunci e della pubblicità, questa diffida all’acquisto delle sue cartelle: «Diffidamento. Ghisolio Giuseppe, residente in Torino, via Fabro n. 4, dichiara che nel furto testé perpetrato nel proprio alloggio sono comprese 8 cartelle al portatore del Debito dello Stato, della rendita complessiva di lire mille, portanti i numeri…».

La notizia del furto compare invece nella Cronaca Nera della «Gazzetta Piemontese» del giorno seguente: «Sabato sera, verso le 11 circa, ignoti ladri si introdussero con chiavi false nell’abitazione di certo G… Giuseppe, sita in via Fabro, nella così detta casa degli assi. Per giungere alla stanza cubicolare [da letto], i marioli dovettero aprire tre o quattro porte, ma vi riuscirono facilmente essendo molto pratici del luogo. In breve tempo lo scrigno fu in loro mani e tosto vuotato del contenuto e cioè: otto cartelle al portatore delle totale annua rendita di lire 1.000 e lire 1.500 in biglietti di banca, che presero il volo insalutato hospite coi loro rapitori».

Le considerazioni del cronista sul fatto che i ladri fossero «molto pratici del luogo» riflettono quelle degli inquirenti che, sulle prime, constatano che gli audaci ladri non hanno frugato né i bauli né gli armadi nelle altre camere, soddisfatti del malloppo trovato nel forziere. Doveva quindi trattarsi di qualcuno molto pratico della casa e delle abitudini di Ghisolio. Così, i primi sospetti cadono su persone familiari e confidenti del derubato, come un tale X, già suo garzone, e una certa Z, sua intima amica. I due sfortunati sono gli unici indagati all’inizio dell’istruttoria che rivela però come questi sospetti siano infondati.

Le indagini devono rivolgersi altrove e non risultano infruttuose.

Si accerta che nel mattino del sabato in cui è avvenuto il furto, verso le ore 10, Ghisolio si è trattenuto al suo forziere, ha verificato le somme contenute e poi ha riposto le cartelle, senza la precauzione di chiudere la finestra e senza pensare che qualche occhio indiscreto poteva osservarlo dal cortile, perché la sua abitazione è al pianterreno.

Tra i molti vicini di casa che sono controllati e interrogati dalla polizia, qualcuno dice di aver visto, in quel mattino e a quell’ora, aggirarsi nel cortile del fabbricato un certo Giovanni Cucco, di Racconigi, abitante a Torino, di 44 anni, già garzone e poi esercente di case di tolleranza (Curzio le indica con questa perifrasi: «[…] quelle case che sono la negazione di quel bel tipo ideale che della donna fecero i poeti».

Le ricerche della polizia e della autorità giudiziaria si concentrano su Cucco.

Si accerta che pochi giorni dopo il furto, Cucco è stato visto spendere molti denari nelle osterie e, mentre prima era malvestito e cencioso, si è rimpannucciato con abiti di lusso. Si sa anche che se n’è andato a Saluzzo, con l’intenzione di aprirvi una bottega da materassaio, e che in seguito, forse perché sospettava di essere ricercato, si è recato a Nizza Marittima con la sua amante, Rosa Menino.

Ma mancano ancora gli indizi necessari per autorizzare l’arresto di Cucco e poi occorrono le pratiche per l’estradizione.

A togliere di mezzo queste difficoltà succede un altro fatto e un’altra scoperta.

Alcune delle cartelle rubate a Ghisolio sono messe in commercio a Saluzzo. Poco alla volta si viene a sapere che il venditore è Giovanni Luino, di 61 anni, che tiene una agenzia di prestiti su pegno. Si perquisisce subito la sua abitazione, gli trovano altre cartelle rubate, che Luino dichiara di aver comperato da Cucco. Ed ecco che il sospetto diviene quasi certezza. Si spicca il mandato di cattura contro Cucco ma questi è ancora latitante.

Poco dopo il ritrovamento delle cartelle, subito sequestrate, ecco che a Saluzzo ricompare Rosa Menino, l’amante di Cucco.

Se c’è lei, ci sarà anche lui, si dicono subito gli inquirenti. E Cucco è infatti a Saluzzo con Rosa Menino. La casa dove abita la donna viene perquisita e qui, il 17 luglio 1873, è arrestato Cucco. Viene anche trovato, in un fagotto di biancheria, un portamonete nuovo, di cuoio bulgaro, che contiene mille lire.

All’arresto di Giovanni Cucco, per caso, è presente suo fratello Michele. Questi, che pare molto ben informato, ha l’inspiegabile premura di fare rivelazioni ai carabinieri: dice che il furto a Ghisolio è stato commesso da suo fratello, con la complicità di due altre persone che indica con precisione. Anche questi due sono presto arrestati. Ma non si trovano elementi per accusarli e, poco dopo, vengono scarcerati.

È ordinato l’arresto di Luino, perché già ha già comprato in precedenza cose di furtiva provenienza, ed ha pagato le cartelle di Ghisolio ad un prezzo molto minore del loro reale valore, ben sapendo di acquistare valori provenienti da qualche furto.

I giusti sospetti degli inquirenti su Luino sono confermati dal suo contegno.

Scompare infatti da Saluzzo e per molto tempo non si hanno più sue notizie. Si dice che si sia rifugiato in Francia. I carabinieri fanno alcuni inutili tentativi per arrestarlo quando, il 14 aprile 1875, Luino si costituisce volontariamente in carcere.

Nel successivo 23 aprile 1875, Luino e Cucco compaiono davanti alla Corte di Assise di Torino, presieduta dal conte e cavaliere Carlo Roasenda. Cucco è accusato del furto e Luino di ricettazione dolosa e acquisto della refurtiva.

Cucco spiega la provenienza delle mille lire trovate nella sua casa dicendo di averle messe da parte quando gestiva case di tolleranza ad Alessandria, a Torino e ad Asti.

Luino si difende sostenendo di ignorare la provenienza furtiva delle cartelle comprate: poteva farne l’acquisto, visto che eserciva una agenzia di prestito su pegno.

Curzio evidenzia lo sfavorevole giudizio morale sui due accusati: «Essi erano degni di trovarsi insieme a dar conto alla giustizia delle loro azioni. Entrambi speculavano sulle sventure dell’umanità! L’uno trafficava sull’abiezione, sull’avvilimento della donna; l’altro sulla miseria, sulle lacrime del povero; e ne facevano loro pro. Erano degni l’uno dell’altro».

I molti testimoni confermano i fatti prima riferiti e le loro testimonianze risultano poco favorevoli alla moralità degli accusati.

Il Pubblico Ministero, cavalier Bichi, chiede ai giurati un verdetto di colpevolezza e lo ottiene malgrado l’eloquente difesa dell’avvocato Demaria.

La Corte condanna Giovanni Cucco alla reclusione per sette anni, alla interdizione dai pubblici uffici e alla speciale sorveglianza della Pubblica Sicurezza per tre anni dopo scontata la pena e Luino al carcere per sei mesi, da calcolare dal giorno della sua volontaria costituzione in carcere; entrambi all’indennità verso il derubato e alle spese processuali.

«E il signor Ghisolio, che per adesso poté se non in tutto almeno in parte riavere il fatto suo, sarà, crediamo, altra volta più circospetto, e prudente quando vorrà far la rivista della sua cassa», conclude Curzio enunciando una ulteriore declinazione di quel punto fermo del sapere popolare piemontese che vieta di esibire il denaro: Fé vëdde ij sòld, a l’é fé vëdde ‘l cul (mostrare i soldi è come mostrare il culo).

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Articolo pubblicato il 09/11/2017