Cioccolata a colazione

Andrea Biscŕro ricorda la scrittrice Pamela Moore

Parlare di Pamela Moore non è facile. La sua vita ci lascia a bocca socchiusa e lo sguardo si posa oltre il comprensibile, il definito.

Pamela nasce a New York il 3 febbraio 1937. I genitori sono degli scrittori: il padre, Don, cura l’edizione di pulp novels e scrive fumetti; la madre, Isabel, scrive per le riviste Redbook e Cosmopolitan ed è autrice di pulp novels per la Rhinehart & C. Dopo la guerra la coppia divorzia. Lui va a Los Angeles come story editor per la Warner e la RKO; lei a New York per il magazine Photoplay. Pamela vive con la madre, ma saranno frequenti i viaggi in California dal padre.

Scrivere è un’urgenza dell’anima e del corpo. Intorno ai 14 anni inizia a buttare giù idee e brevi racconti sul suo diario, al quale confida che Francis Scott «Fitzgerald è diventato la mia ispirazione numero uno». A 16 anni varca i cancelli del Barnard College di NY. Nell’estate del ‘55, in coincidenza con gli esami finali del secondo anno di college, si butta a capofitto in quello che diventerà il suo libro. Monica McCall, agente letterario di Isabel, legge il dattiloscritto di Pam e decide di pubblicarlo col titolo Chocolates for breakfast, in italiano Cioccolata a colazione.

La quarta di copertina dell’edizione Mondadori del 1965 (il libro esce nel ’56; tradotto in varie lingue, venderà milioni di copie) presenta ai lettori una sinossi di tutto rispetto:

«Dal collegio di Scaisbrooke a New York, dalla vita idillica e monastica a quella turbinosa di Hollywood, “Cioccolata a colazione” non è soltanto la cronaca di un’innocenza perduta, la storia di molti amori senza amore, ma il quadro tragico e realistico della “gioventù dorata” nordamericana. Una gioventù insoddisfatta nel corpo e nell’animo che, dietro la maschera di una esasperata spregiudicatezza, nasconde l’angoscia e l’insicurezza di un’adolescenza vissuta senza affetto e senza guida. E al fondo di tutto, come nel cuore di queste creature perdute, resta una grande malinconia, uno struggimento, una tenerezza patetica che è quasi il segno della poesia».

Pamela Moore viene accostata alla francese, quasi coetanea, Françoise Sagan, autrice di Bonjour tristesse del 1954. In effetti, da entrambe le opere emerge un’aura di leggerezza priva di senso, dove edonismo, gratificazioni effimere che conducono al piacere puro, insoddisfazione dell’essere rappresentano il motivo dominante.

Pamela non si monta la testa. Anzi. Monta la paura. È il diario a parlare:

«Quando per la prima volta Monica mi ha detto che il libro vendeva, non sentivo ancora di potermi chiamare – di avere il diritto di farlo – una scrittrice… Alle 10 del mattino ero seduta nella mia classe, ma, dentro di me, mi rendevo conto che quel pomeriggio sarei andata alla Rhinehart a firmare il mio contratto + a fare la mia prima riunione editoriale. Improvvisamente, intorno alle 10:45, mi è presa una grande paura, come se fossi su un’altura. Non voglio andare, pensavo. Non voglio firmare il mio contratto + iniziare la mia carriera + cambiare la mia vita».

Pochi mesi prima della pubblicazione (avvenuta nel settembre 1956), Pamela prosegue gli studi (storia antica e medievale) in Francia, da sola. Sul transatlantico diretto in Inghilterra conosce Edouard de Laurot, trentaquattrenne attivista, regista e scrittore. Su di lei avrà un’influenza non indifferente, che potremmo definire filosofico-esistenzialista.

Nella primavera del 1958 torna negli Stati Uniti. La celebrità non la esalta, specie quella americana, superficiale rispetto all’accoglienza ricevuta in Europa, specie a Parigi.

Comuni amici newyorkesi le presentano Adam Kanarek, di origini polacche. Tra i due c’è intesa, discutono di argomenti legati alla politica, alle ideologie, alla religione. Un uomo che aveva poco in comune con la gente di Beverly Hills e in generale col mondo conosciuto da Pam nella sua infanzia e adolescenza. Si sposano quello stesso anno e vanno a vivere a NY, dove Adam conseguirà la laurea in Legge. Nel settembre del 1963 nasce Kevin, il loro unico figlio.

Nel ‘59, grazie anche all’incoraggiamento del marito, Pamela Moore torna a scrivere (tre romanzi) ma con scarso successo. L’ultimo romanzo – Kathy, mai pubblicato – ha per «protagonista una scrittrice fallita che contempla il suo fallimento. Il modello di Pamela, Francis Scott Fitzgerald, ha impiegato sedici anni per percorrere il percorso da Di qua dal Paradiso al “Crollo”; lei aveva coperto la distanza in metà del tempo», che per lei terminerà domenica 7 giugno 1964. Leggiamo assieme La Stampa del 9 giugno 1964:

«Con un colpo di carabina alla bocca, la giovane scrittrice Pamela Moore si è tolta la vita. […] Il cadavere della Moore, che aveva 26 anni, è stato trovato dal marito, l’avvocato trentenne Adam Kanarek, al suo rientro nell’appartamento di Brooklyn dove la coppia alloggiava. Kanarek ha trovato la moglie nel suo studio: il cadavere giaceva accanto a una macchina per scrivere. Il volto della donna era sfigurato; a pochi centimetri di distanza, c’era la carabina calibro 22 da cui era partito il colpo mortale. Kanarek, ripresosi dallo choc dell’atroce spettacolo, si è precipitato con l’angoscia nel cuore della stanza accanto, ma qui giunto ha tirato un respiro di sollievo: Kevin, il figlioletto di nove mesi, dormiva tranquillamente nella sua culla. La Moore non ha lasciato alcun biglietto per spiegare le ragioni del suo tragico gesto. Nel mettere ordine tra le carte della morta, la polizia ha trovato tre o quattro fogli di appunti. Appartenevano alla prima bozza dell’ultimo libro che Pamela Moore stava scrivendo. Sotto il titolo provvisorio di “Kathy”, la scrittrice modellando una figura di donna angustiata da difficoltà nella vita matrimoniale e da tendenze suicide. È probabile che il personaggio non fosse solo frutto di immaginazione, ma avesse carattere autobiografico».

Leggendo l’articolo dedicato alla sua vita, firmato da Robert Nedelkoff, apprendiamo che «uno dei personaggi del suo romanzo, secondo l’investigatore Robert Gosselin del Dipartimento di Polizia di New York, “parlava di difficoltà coniugali e tendenze suicide... vi era anche una nota su quel tale, Hemingway, e com’era morto”» ossia allo stesso modo, tre anni prima.

Prima di farla finita, annota nel diario: «Se metti tutto assieme»…

Ai reporter, Gosselin dice che «le ultime quattro pagine [del diario], alla data del 7 giugno, indicano che aveva problemi con lo scrivere e che intendeva distruggere se stessa», arrivando persino a descrivere la sensazione della canna del fucile – «fredda ed estranea» – nella sua bocca.

Pamela Moore è passata come un treno in corsa nel panorama letterario mondiale.

Tuttavia, il suo passaggio non va sottovalutato.

Ci sarebbe molto altro da scrivere su di lei, sui genitori-scrittori e sul rapporto con la madre, sull’influenza di Edouard de Laurot e di suo marito. Sul periodo parigino, sui ricordi della sua amica e compagna di classe Barbara Brisco, sugli effetti della fama. E ancora: meriterebbe soffermarsi su quelli che, a ragione, sono stati chiamati gli «snodi della storia editoriale di Cioccolata a colazione». Il testo americano, rispetto al dattiloscritto originale, subirà un’opera di autocensura da parte della stessa autrice; la traduzione francese, invece, vedrà, sempre rispetto al dattiloscritto, dei brani eliminati e dei nuovi inserimenti.

Poco prima di morire, Pamela Moore, in un’intervista, lascia una traccia del suo profondo disagio: «ho perduto la mia identità di scrittrice diventando una celebrità».

«Ripensandoci – sono le parole dell’amica Barbara – capisco che fosse soggetta ad alti e bassi, ma non me ne rendevo conto, all’epoca. Gli alti erano evidenti, ma teneva i bassi per se stessa».

Courtney Farrell, la protagonista quindicenne di Cioccolata a colazione, e la sua amica Janet Parker, ci conducono in un mondo adolescenziale che meriterebbe, oggi, un’attenta rilettura. Non tanto per penetrare le dinamiche del vuoto esistenziale di allora, quanto per operare un confronto col vacuum attuale che rischia di inghiottire – e inghiotte – molti dei nostri adolescenti.

Le tematiche affrontate suonano come drammaticamente moderne: dal sesso all’abuso di alcool (entrambi stordenti, per non sentire il peso della noia), dalla ribellione tanto per alle tendenze suicide (Janet si uccide) passando per l’autolesionismo e la mancanza di riferimenti nelle figure genitoriali, anch’esse in crisi e quindi destabilizzanti per i figli, futuri adulti.

Cioccolata a colazione non appartiene all’archeologia letteraria e sociale.

Pamela Moore ha scritto di Courtney a diciott’anni, descrivendo la crisi morale che ha sperimentato attorno a sé, adolescente tra le adolescenti. Stampa Sera del 10 giugno 1964 suggerisce una spiegazione alla sua morte: «forse è arrivata al fondo di quella crisi, senza capirla». Ci troviamo dunque di fronte all’eterno dramma di quegli scrittori incapaci di metabolizzare ciò che hanno umanamente e dolorosamente assorbito vivendo e sperimentando?

«Gli alti erano evidenti, ma teneva i bassi per se stessa», arrivando forse ad osservare il mondo attraverso le caotiche immagini che la musica di Stan Kenton riesce ad evocare ancor oggi con la sua Capital Punishment, messa su da Janet nella sua cameretta, prima di tuffarsi nel vuoto.

 

Andrea Biscàro

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Articolo pubblicato il 16/10/2017