Quel volto oscuro della fama.

Andrea Biscŕro ricorda la modella, ballerina e attrice Evelyn Nesbit.

«Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri». Parola di Robert Musil nel suo capolavoro, L’uomo senza qualità.


Un consiglio quanto mai appropriato per la bellissima It Girl ante litteram, Evelyn Nesbit.


It Girl? Ce lo spiega Pianeta Donna:


«Con il termine It Girl si definiscono quelle ragazze che per il loro innato fascino ed il loro modo intrigante di vivere e relazionarsi, riescono ad attirare attenzione attorno a sé e alla loro immagine». Sì, lei è stata per davvero una It Girl.


Evelyn Florence Nesbit nacque il 25 dicembre 1884 a Tarentum (Pittsburgh, Pennsylvania). Suo padre, avvocato, morì nel 1893, lasciando lei, la madre e il fratellino in bolletta. Per anni, i tre vissero ai limiti della povertà. A dire il vero, un capitale lo possedevano: Evelyn, la splendida ragazza dai capelli rossi. La sua bellezza acerba, timida e accattivante, non passò inosservata. In breve, attirò le attenzioni di artisti e fotografi locali.


Nel 1901 si trasferirono nella Grande Mela. Una lettera di presentazione le consentì di arrivare al pittore James Carroll Beckwith. Lavoro assicurato: modella per le sue opere. La voce si sparse e così posò per artisti e fotografi del calibro di Frederick Stuart Church, Herbert Morgan, Gertrude Käsebier, Carl Blenner, George Grey Barnard (la sua opera Innocence, del 1896, è esposta al Metropolitan Museum of Art di NY), Rudolf Eickemeyer, Jr. Di lei si interessò anche Charles Dana Gibson. Gradevole lo schizzo a inchiostro del profilo di Evelyn (The eternal question, 1905) che, grazie a quest’opera, entrò a far parte delle Gibson Girl ossia un’idea di bellezza femminile creata dall’illustratore Gibson tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.


Per il personaggio del romanzo Anna dai capelli rossi, la scrittrice canadese Lucy Maud Montgomery si ispirò a una fotografia di Evelyn.


La sua immagine fresca e aggraziata, dai lineamenti maliziosamente angelici, con quel sorriso in bilico tra l’ironico e l’invitante, coronato e impreziosito da un’acconciatura talvolta raccolta, altre volte sbarazzina, trasformarono la sua persona in mille personaggi per cartoline, pacchetti delle sigarette, calendari e cromolitografie. Non solo: posò in costume per fotografi e illustratori, impersonando ninfe dei boschi, gitane, divinità greche, geishe. Ammiccò, dai cartelloni pubblicitari, ai passanti delle strade newyorkesi; sorrise ai lettori dei tabloid; fu la ragazza copertina di riviste come Harper’s Bazaar e Ladies’ Home Journal; addolcì, con la sua immagine riprodotta sui pacchetti delle sigarette, i fumatori incalliti.


«Per quella prima entusiasmante decade del XX secolo, – scrisse Paula Uruburu, sua biografa – Evelyn Nesbit fu la Ragazza del Sogno Americano, il cui “volto era la sua fortuna” e la cui vita rifletteva l’inebriante epoca, l’umore accelerato e audace. Ha incarnato tutti gli impulsi contraddittori della Gilded Age; talvolta assomigliava ad un quadro di vittoriana sentimentalità, ma il suo sorriso seducente prometteva qualcosa di proibito».


La ragazza dai capelli rossi doveva ancora farne di strada…


 

Nel 1901, sedicenne, fu presentata a Stanford White (1853-1906), quarantottenne, architetto tra i più rinomati di New York, noto bon vivant. La corte è serrata, galante, impeccabile. Stanford ci sa fare. Inoltre, possiede molti contatti a Broadway: le porte del Teatro si spalancano per Evelyn, che saprà comunque dimostrare il suo talento.


Una cinquantina d’anni dopo – dal 14 al 29 marzo 1952 – Stampa Sera dedicò una decina di box alla parabola di Evelyn, chiamata Evelina. Lo stile fa sorridere per certe espressioni mitigate…


«La vita della piccola modella, grazie alla protezione del cinquantenne architetto, ha subito una vera metamorfosi. Una sera, all’uscita del teatro, Stanford White propone ad Evelina di portarla a cena, anziché in uno dei soliti ristoranti, in uno dei suoi appartamenti da scapolo che egli, per l’occasione, ha fatto mobiliare e decorare per renderlo maggiormente degno di lei. Evelina accetta […] e fa dono della sua virtù all’uomo che potrebbe esserle più che padre. Adesso che la bella Evelina è divenuta la sua amante, Stanford White vuole che tutto il mondo gaudente di New York conosca la sua fortuna: e si fa vedere dappertutto in compagnia della giovane che ostenta quasi con orgoglio, non solo, ma organizza in suo onore dei ricevimenti, dei balli, dei festini. Le solite cronache scandalistiche dell’epoca asseriscono che una notte egli diede, per una stretta cerchia di amici, un sontuoso banchetto, durante il quale fece comparire sulla tavola un enorme pasticcio che, privato del coperchio, rivelò un inusitato contenuto: Evelina Nesbit in tutto il suo radioso fulgore».


L’appartamento in questione si trovava in una palazzina al 22 West della ventiquattresima strada. Un ambiente raffinato, arricchito da dipinti e suppellettili pregiate. La luce del giorno e la notte newyorkese erano oscurate da pesanti tendaggi color cremisi. Non poteva mancare il gioco erotico: lei spinta su un’altalena di velluto. Le oscillazioni aumentano ed Evelyn deve colpire con la punta del piede un ombrello di carta giapponese, issato al soffitto. Pare che White amasse vedere giovani donne discinte, se non nude, dondolarsi sull’altalena. Piacere estetico all’apice.


La voce, sicuramente alimentata dallo stesso Stanford, fece il giro della metropoli. Per tutti Evelyn divenne «The Girl in the Red Velvet Swing».


A quanto sembra, la madre benedì la relazione. Pennies from heaven!


Altro amore importante fu l’attore John Barrymore, osteggiato dalla madre in quanto era soltanto un commediante. L’influenza di White sulla ragazza causò la fine della loro relazione, ma non potè impedire un nuovo amore (nel frattempo c’erano stati amori fugaci col giocatore di polo James “Monty” Waterbury e con l’editore Robert J. Collier), quello che ti cambia la vita. Se Stanford White era morboso, possessivo, bon vivant all’eccesso, il nuovo amore di Evelyn rese innocenti le stravaganze sessuali dell’architetto newyorkese.


 

Harry Thaw (1871-1947), erede di una delle famiglie più ricche del Paese, sposò Evelyn Nesbit il 13 aprile del 1905. Personalità disturbata, cocainomane, sadico, alternò, nel suo rapporto con Evelyn, momenti di normalità a vere e proprie torture psicofisiche, come la fustigazione con tanto di scudiscio. Non accettò mai Stanford (che conosceva e disprezzava), in qualche modo sempre presente nella vita di Evelyn. I box pubblicati su Stampa Sera approfondiscono il tenore della relazione tra la Nesbit e Thaw nonché le ingerenze di White nel loro rapporto.


Gelosia ed esasperazione minano la lucidità e l’autocontrollo in un soggetto sano. Figuriamoci in Thaw. La coppia Evelyn-Harry incontrò White in diverse uscite mondane. Un caso? Forse sì, forse no. Fatto è che Thaw, la sera del 25 giugno 1906, durante uno spettacolo al Madison Square Garden, veduto Stanford sulla terrazza dove si trovavano anch’essi, gli si avvicinò freddandolo con tre colpi di rivoltella in pieno volto, di fronte agli astanti.


Al processo se la cavò con l’infermità mentale, madre di tutte le scappatoie. Determinante fu la testimonianza di Evelyn, convinta dalla madre di Thaw (in cambio di un milione di dollari, mai incassati, tranne un lascito testamentario di diecimila dollari alla morte di Thaw) a testimoniare in favore del figlio. Per lui si aprirono le porte del manicomio criminale, ma sarà una sorta di villeggiatura. I due ebbero un figlio, nato nel 1910 durante la detenzione del marito. Thaw contestò la paternità del piccolo, ma Evelyn sostenne di averlo concepito durante un’uscita del marito.


Nel 1916 (aveva già divorziato) si sposò col ballerino Jack Clifford. La storia non funzionò.


Pubblicò due libri di memorie: The story of my life (1914) e Prodigal days (1934).


La sua vita rimase fortemente segnata dal rapporto insano con Thaw e dalla tragedia inaspettata. Attraversò il tunnel dell’alcolismo, della dipendenza dalla morfina, arrivando a due tentativi di suicidio. Malgrado le cadute, Evelyn non sprofondò negli abissi di se stessa. Non del tutto.


Dal 1914 al 1922 recitò in 11 film e in un paio di documentari (del 1907 e del 1932) sulla tragedia che la investì. Grazie a YouTube possiamo vederla in un filmato del 1930 al Bilgray’s Garden a Colon, Panama. Al pubblico è presentata come «the star, Evelyn Nesbit». Raccoglie applausi, canta il suo pezzo (la voce lascia a desiderare), ma della ragazza sull’altalena di velluto rosso non è rimasto più nulla. Lo sguardo, gli occhi, le movenze – indolenti se non meccaniche – non mentono.

 

Due le pellicole dedicate all’omicidio di White. La prima è L’altalena di velluto rosso (1955), diretta da Richard Fleischer con Joan Collins nella parte di Evelyn, Ray Milland in quella di White e Farley Granger nei panni di Thaw. Consulente speciale: la stessa Evelyn. Nel 1981 si occupò della vicenda il regista Milos Forman in Ragtime. Evelyn è interpretata da Elizabeth McGovern.


 

In un’intervista rilasciata al magazine People Today del luglio ‘52, l’anziana signora confidò d’aver ritrovato se stessa «dopo lunghi anni di infelicità e frustrazione». Nel 1949 si trasferì dall’East Coast in California (Santa Monica), conducendo un’esistenza dignitosa. Prese in affitto un piccolo appartamento e tornò alle origini. Infatti, prima di sposarsi, Evelyn frequentò una scuola d’arte a New York. Un vecchio articolo reca la seguente didascalia all’immagine di Evelyn intenta a scolpire un busto in argilla: «Evelyn Nesbit, che da quando ha cessato di essere la moglie di Harry Thaw ha recitato in teatro e nei film, si sta dimostrando anche una scultrice di talento».


Altre fotografie la ritraggono in camice da lavoro mentre disegna, realizza una scultura, posa di fronte a una sua opera.


La vita vorticosa non cancellò i semi di quel dono, salvandola dagli effetti nefasti dell’oblio.


La vecchiaia le fece riscoprire se stessa attraverso la scultura e l’insegnamento dell’Arte della ceramica.


La fama portò alle stelle la povera e affascinante ragazzina della Pennsylvania.


Il volto oscuro della fama la sferzò duramente, ma lei seppe reagire e trovare un nuovo equilibrio, quantomeno un po’ di pace, modellando i suoi ultimi anni – si spense a Santa Monica il 17 gennaio 1967 – nell’atelier della costruttiva rassegnazione.

 

                                                                                                                                                              Andrea Biscàro

                                                                                                  

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 27/09/2017