La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Giuseppe Pomero, “Martire della Libertà” del 1800: «Qualche volta la feccia democratica veniva a galla, ed era scambiata per materia purissima repubblicana» (Nicomede Bianchi, 1879)

Siamo a Torino nell’anno 1800. La vittoria di Napoleone a Marengo del 14 giugno ha riconfermato i Francesi come padroni del Piemonte e, di conseguenza, i torinesi repubblicani hanno ripreso il sopravvento su quelli monarchici. La situazione è quella avvelenata di una guerra civile.


I repubblicani, tornati al potere, nei loro proclami parlano di ritorno della libertà, della pace e dell’abbondanza, rialzano gli alberi della libertà, rimettono in vigore il calendario repubblicano. Governo e Municipio auspicano concordia, superamento delle passioni, pace e fratellanza ma le buone intenzioni di conciliazione appaiono più sbandierate sui manifesti affissi alle cantonate che realmente praticate. In realtà vi è odio implacabile tra gli intolleranti repubblicani e i monarchici, ancora speranzosi di rimettere la monarchia sul trono: si vive così in un clima di sospetto, con frequenti arresti e, ogni giorno, esecuzioni da parte della giustizia militare, che fucila, e di quella civile, che impiega la ghigliottina.


In questo contesto si colloca la vicenda che stiamo esaminando: dopo quello del frate pazzo frettolosamente promosso «martire della libertà» di cui si è già detto, ecco un secondo caso in cui i fanatici sostenitori delle idee repubblicane, vogliono elevare nelle vie di Torino un idolo che però non regge a lungo sul suo piedestallo di argilla.


A Torino, il 22 settembre 1800, si celebra con solenni festeggiamenti il 1° vendemmiaio (vendemmiatore), primo giorno dell’anno nono repubblicano, «sacro alla repubblica». I festeggiamenti distraggono la pubblica opinione, ravvivano lo spirito repubblicano, fanno sperare in un periodo di tranquillità e i repubblicani, per un attimo, non si preoccupano delle macchinazioni realiste.


La festa del 1° vendemmiaio, come d’uso, si prolunga per più giorni e, il 25 settembre, gli ufficiali del 3° e 4° battaglione partecipano a un pranzo che si conclude con fanfare, canti repubblicani, evviva e ballo della carmagnola intorno all’albero della libertà. L’allegria dei militari allieta la città.


Il mattino seguente, 26 settembre, prima dell’alba, le verduriere di Piazza delle Erbe (oggi piazza Palazzo di Città), con i lumicini in mano, accorrono e fanno circolo sotto gli arconi affumicati che immettono nella contrada delle fragole (oggi via Conte Verde) dove un uomo giace a terra in un lago di sangue.


È Giuseppe Pomero, noto come «uno degli amici della libertà, un noto taverniere gran patriota, gran liberale, capopopolo, uno di quelli che sulla piazza del mercato, al macello, e nelle botteghe di formaggi declamavano più energicamente contro l’aristocrazia e l’ex-re (…)». Pomero è stato ucciso da una coltellata. Subito i chiassosi repubblicani si mettono a sbraitare che l’integerrimo patriota è stato vittima di un sicario assoldato dagli aristocratici. I monelli distribuiscono per le vie, gridando a squarciagola, un foglietto a stampa dove è scritto: Vendetta! vendetta! Da vil mano di scellerato sicario, venduto all’oro degli aristocratici, cadde Pomero, vittima tradita.


I cervelli vanno in ebollizione. I repubblicani criticano ferocemente la condotta del governo che ha pensato ad una conciliazione impossibile nei fatti e che ha poco assistito i veri amici e sostenitori della repubblica. Alcuni pacifici cittadini, ritenuti aristocratici, vengono bastonati presso piazza Carignano. Nel caffè del Cambio scoppia un tafferuglio dove volano pugni e schiaffi.


Il cadavere di Pomero giace nell’Ospedale dei Santi Maurizio e Lazzaro: il suo funerale dovrà essere occasione di una manifestazione imponente che darà una dimostrazione politica tale da schiacciare l’arroganza dei nemici.


Nel pomeriggio, in ogni parte della città incomincia a risuonare il rullo dei tamburi che chiamano a raccolta la Guardia Nazionale.


Il corpo di Pomero è posto nella cassa da morto, coperta con un tappeto di velluto e ornata con ghirlande ed emblemi repubblicani.


Verso le 7 della sera, molti ufficiali dei diversi corpi si recano all’Ospedale, e di là, a forza di urli e di fischi intimidatori, fanno mettere i lumi alle finestre delle case prospicienti le vie dove passerà il corteo funebre. È accorso un enorme numero di persone, partecipano anche molti repubblicani dei comuni limitrofi a Torino.


La bara è preceduta da un numeroso contingente di Guardie Nazionale, fiancheggiata dalla gendarmeria e seguita da una moltitudine formata da ufficiali di tutti i corpi con bandiera coperta a lutto, da pubblici funzionari e di cittadini di ogni ceto. Viene portata su bianche fasce tra il salmodiare dei preti e salve di moschetteria. La musica, coi tamburi coperti di gramaglia, emette un rullo sordo e melanconico che si alterna alle «arie patetiche e repubblicane».


Il corteo sosta sotto il balcone del Palazzo di Città, dal quale viene recitato un discorsone in onore del martire Pomero; altre lodi gli vengono tributate in piazza Castello, in Duomo e sulla fossa.


Il funerale risulta veramente imponente: Pomero, considerato un patriota, riceve un funerale da re. Al momento della conclusione, sono distribuite per ricordo numerose copie del sonetto intitolato “Vendetta Giustizia Morte. L’assassinio del Patriota Giuseppe Pomero”, scritto dal cittadino Costantini, ufficiale di sanità del 3° Battaglione Piemontese.


Il governo ha subito fatto pubblicare dalla polizia (al tempo detta «pulizia») un proclama - datato Torino, 6 vendemmiatore, anno nono repubblicano (27 settembre 1800) - dove si promette una notevole ricompensa a chi, sia pure un condannato alla galera, sappia indicare l’uccisore dell’infelice patriota.


Grazie alle cinquanta doppie offerte, si fa presto luce sull’ultima notte di vita di Pomero: «Umiliante disillusione, la causa politica era estranea alla sua morte, egli era caduto sotto i colpi del coltello d’un compagno di delitto, con cui era venuto in contesa per la divisione del bottino di un furto!».


Giuseppe Pomero era un ladro e, con altri furfanti, quella notte aveva svaligiato la bottega di un certo Actis. Poi, nella divisione del bottino, voleva fare la parte del leone e il complice Giuseppe Barberis, detto Saccone, aveva risolto la questione con una coltellata mortale. Giuseppe Barberis, reo confesso, è poi fucilato a Torino il 30 settembre 1800.


Questo vistoso smacco dei repubblicani torinesi del 1800 è ricordato dal già citato opuscolo a firma O., intitolato Torino e i Torinesi sotto la repubblica. Bozzetti e Memorie. I Martiri della Libertà” (Torino, 1874). Anche questa volta ho dovuto sacrificare allo spazio la sua tagliente ironia nei confronti dei repubblicani piemontesi del tempo e sono sue le citazioni poste fra virgolette.


Ne parla anche lo storico Nicomede Bianchi, nel suo libro “Storia della monarchia piemontese dal 1773 sino al 1861”, Vol. III (Torino, 1879) con tono piuttosto risentito nei confronti dei repubblicani. È di Nicomede Bianchi la frase indignata che fa titolo a questa storia e dal suo libro provengono molte informazioni sul crimine e sulla fine del colpevole, il quale, quattro giorni dopo il suo crimine, era già stato giudicato e punito con la morte!


 

O., Torino e i Torinesi sotto la repubblica. Bozzetti e Memorie. I Martiri della Libertà”, in Curiosità e ricerche di storia subalpina pubblicate da una Società di studiosi di patrie memorie”, Vol. I, Torino, 1874.


Nicomede Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 sino al 1861. Periodo secondo. Dominio francese e regno di Vittorio Emanuele, Vol. III, Torino, 1879.

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Articolo pubblicato il 22/09/2017