Festival dei Saraceni. Pamparato – Oratorio di Sant’Antonio Sabato 19 agosto ore 21

Dall’america all’Asia – Viaggio musicale dall’Argentina del tango e della zamba all’Armenia di Laurent Boutros, attraverso l’Europa

Laurent Boutros

Amasia


Barna Kovats

Sonatina

Allegretto – Adagio – Moderato – Allegro vivace


Atahualpa Yupanqui

La arribena

La viajerita


Alberto Cesaraccio

Dialogo I

Bettiriccia


José Luis Merlin

Zamba y Chacarera

 

 

Duo Ellipsis

Alberto Cesaraccio, oboe

Alessandro Deiana, chitarra


enrico raggi presenta il concerto



«Lorenzo, quando studi Sor?». L’adolescente Laurent Boutros finge di non sentire; siamo nel 1980, ha sedici anni e idee già molto chiare. Due volte la settimana percorre in metropolitana i dieci chilometri che separano Maisons-Alfort da Parigi: il martedì va a studiare flamenco da un maestro spagnolo, il giovedì s’immerge nella musica sudamericana. Lo chiamano «chitarrista nomade» e l’appellativo lo inorgoglisce.

Sarà fedele a quel soprannome: trent’anni dopo ha visitato Turchia, Marocco, Cuba, Venezuela, Montenegro, l’Armenia e il Caucaso; da poco ha composto Amasia, un’oscillazione intorno a due note, ripetuta all’acuto, e poi la velocità che decolla, il caravanserraglio che finalmente parte, tra sabbia, berberi, oasi e notti stellate, a ripercorrere le piste della antiche carovane.

Barna Kováts sta piangendo. È notte.

Viaggia nascosto in un treno merci diretto in Austria (da qui, raggiungerà Parigi); rimpiange gli affetti, il Danubio, la sua bella casa nel quartiere ebraico di Budapest.

Ha 36 anni, la rivoluzione ungherese ha condotto il paese nell’incertezza, serpeggiano terrore e morte e lui è in cima alla lista. È un fuggiasco, non ha più nulla: solo nell’abisso, inghiottito dal buio. Un amico gli stringe le mani. «Non temere, hai queste…». La stessa profezia che accompagnò Rachmaninov quarant’anni addietro, prima che s’imbarcasse per l’America.

L’amico ha ragione. Con quelle mani Barna fa ciò che vuole: è uno dei migliori chitarristi di Ungheria.

La Francia lo accoglie. Compone, insegna, tiene concerti. Nel 1971 inciderà con Claudio Abbado il Barbiere di Siviglia rossiniano, suonerà alla Scala e nel mondo. Nella Sonatina Kováts sparge le sue delicate geometrie, un neoclassicismo lucido, levigato e dolce (come a Lourdes, dove la pietra della grotta, da ruvida è diventata liscia a forza di carezze).

Héctor Roberto Chavero Aramburo si fa chiamare Atahualpa Yupanqui. Chitarrista, compositore, persino scrittore.

«Mentre lungo i campi si allungavano le ombre del crepuscolo, le chitarre della pampa cominciavano la loro antica stregoneria, tessendo una rete di emozioni e ricordi.

Erano stili dal ritmo sereno, dal discorso distinto e nostalgico, in cui trovavano spazio tutte le parole che ispirano la pianura infinita, i suoi trifogli, il suo monte, il solitario ombú, il galoppo dei puledri, le cose dell’amore assente. Erano milonghe lente, per narrare con tono lirico i fatti della pampa.

Il canto era l’unica voce nella penombra. Così, in pomeriggi infiniti, grazie a questi popolani, m’introdussi nel canto della pianura. Furono loro i miei maestri» (A. Yupanqui, El canto del viento). Alle prese con una verde milonga, canzone di Paolo Conte del 1981, s’ispira al musicista argentino, conosciuto a un Premio Tenco; identico l’omaggio di Vinicio Capossela, in Abbandonato, del 2012.

«Il mio Dialogo I (dicembre 1997) profuma di tonalità. Sarebbe dovuto essere il primo di una serie di “colloqui”, per ora è rimasto l’unico. L’ho pensato in stile minimalista, di cui ostenta il carattere ossessivo. L’oboe realizza frullati, quarti di tono, suoni multipli, doppi trilli, armonici, varianti timbriche della stessa nota alternate a suoni naturali. La chitarra usa invece effetti “tambora”, suoni pizzicati, scordature. Più c’è varietà sonora, più la musica mi sembra gradita. Bettiriccia (settembre 1998) è una calda milonga» (Alberto Cesaraccio).

«Il caldo suggerisce pigrizie tropicali e quieto partorisce i suoi odori essenziali. Il caldo è parole bianche, è sogno coloniale, di un’ora pachiderma che finta il temporale, nell’afa dura e ferma, nell’ora arroventata, chiude gli scuri, attende. Benvenuta canicola, maga meridionale, che scioglie e disarticola ogni ansia epocale» (Michele Serra).

Scrive José Luis Merlin, classe 1952, bonoarense di nascita, spagnolo d’adozione (la sua famiglia si trasferì in Argentina per sfuggire ai pogrom di Odessa del 1912): «Trasfiguro la nostalgia nella bellezza e densità delle mie melodie. Accosto il mio spirito da migrante a un albero le cui radici si protendono verso il cielo. Spalanco la fisica dei miei suoni alla metafisica del sentire». Detto in altri termini: alla ragione non basta vedere quello che vede: annusa, pre-sente, interroga, esige dell’altro. Ogni secolo sposta il confine al mistero, ma quello non arretra, non diminuisce di una virgola. Anzi, lo scorrere del tempo lo rende più grande ancora. Mentre affondiamo in esso lo sguardo, lui si sposta un passo indietro e ci dice: «Cosa cercate?». La stessa domanda che Gesù pose ai primi discepoli: «Cosa cercate?».

In Nightclub 1960 di Astor Piazzolla emergono in superficie relitti di qualche tragedia sotterranea. Non ci sono più punti d’appoggio, appigli, solo luce livida, volti muti, disorientamento. Una matassa impossibile da sbrogliare. Un groviglio che chiama, che implora perdono. C’è qualcuno disposto ad ascoltare?

 

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Articolo pubblicato il 16/08/2017