La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Don Ambrogio, predicatore ambulante, «… giullare della piazza, diverte, e nessuno converte» (seconda parte)

I rapporti di Don Ambrogio con il futuro Santo Giovanni Bosco sono particolarmente tesi. Nel 1864, poco prima delle “Giornate di sangue” del 21 e 22 settembre, don Ambrogio “attacca” l’Oratorio di Valdocco.


Leggiamo nelle Memorie di Lemoyne:


«Ai favori celesti s’alternava la rabbia dell’inferno e dei suoi emissari. A metà di settembre scendeva a Valdocco, seguito dalla folla solita a raccogliersi intorno ai ciarlatani, un certo D. Ambrogio, emissario dell’eresia e delle sette, che, non contento di vomitare, sulle piazze e alla porta delle chiese, empietà e sciocche invettive contro quanto v’ha di più sacro non senza applausi di prezzolati frequentatori delle osterie, soleva ripetere simili sconcezze alle porte degli Istituti religiosi.


Innanzi al portone dell’Oratorio inveì con modi villani contro Don Bosco, e si ritirò quando cominciò a mancargli il fiato. Il popolaccio aveva schiamazzato e riso sguaiatamente, e lanciato insulti all’indirizzo dei sacerdoti e anche dell’oratore. Gli alunni non s’erano fatti vivi, e Don Bosco era fuori di casa.


Rientrato e saputa la cosa:  - E perché, osservò, non avete fatto suonare la musica? Un’altra volta si collochi la banda dietro il portone chiuso, e rimbombi all’improvviso una marcia delle più fragorose col tamburo e la grancassa!».


Fin dal 1863, il Santo gli ha dedicato due opuscoli fortemente critici, “L’apostata don Ambrogio smascherato” (la 2da edizione è del 1863, a Torino) e “Chi è D. Ambrogio? Dialogo tra un barbiere ed un teologo” (Torino, 1864). Leggiamo nelle Memorie: «Ma un’altra musica, partendo ripetutamente dalla scuola tipografica dell’Oratorio [di San Francesco di Sales], faceva già rumore. Era un opuscolo intitolato: Chi è Don Ambrogio? Dialogo tra un barbiere ed un teologo: dove si dipingeva la vita disgraziata dell’apostata e si ricordava ai fedeli l’obbligo di non ascoltarlo, ma di fuggirlo. Allorché si trattava d’impedire uno scandalo, Don Bosco non si teneva mai indietro».


Sono altrettanto fortemente critiche le osservazioni di un opuscolo di matrice opposta, decisamente anticlericale, intitolato “Marforio. Bozzetti umoristico-politico-sociali” (Firenze, 1871):


«Don Ambrogio predicatore della piazza.


L’Armonia [giornale fiorentino cattolico intransigente] lo dice apostata. L’Unità Cattolica [giornale torinese cattolico intransigentesostiene che egli è un eretico. La Questura pretende sia un perturbatore della pubblica quiete. Gli spiriti forti affermano ch’egli è un ciarlatano. Alcuni popolani lo credono un apostolo perseguitato. Tutti quanti hanno torto. Don Ambrogio è puramente e semplicemente un felice imitatore dell’orbo di piazza Castello. L’orbo vende le sue canzoni in versi d’ogni misura subito dopo averle cantate.

Don Ambrogio predica in prosa passabilmente cattiva, e poi fa stampare le sue prediche e le vende al prezzo di venticinque lire il mille ai monelli che poi le rivendono al minuto per un soldo l’una».


Un giudizio fortemente riduttivo su don Ambrogio viene dal settimanale “Il Mediatore” del teologo Carlo Passaglia (Lucca, 1812 – Torino, 1887), uno dei più noti esponenti del clero schierato a favore dell’Unità d’Italia: «… giullare della piazza, diverte, e nessuno converte. E se qualche cosa ottiene, altro non è che qualche scroscio di risa, qualche bravo, qualche battimano dei buontemponi, dei monelli del sigaro e della taverna».


Don Ambrogio è davvero un personaggio così insignificante e banale?


Va ricordato che negli anni 1863-1864 è citato da riviste di carattere religioso di nazioni straniere. Tutte le disposizioni “preventive” delle autorità ecclesiastiche piemontesi e gli scritti di San Giovanni Bosco fanno ritenere che Don Ambrogio desti qualche preoccupazione per il suo ascendente sulla popolazione più modesta, e sprovveduta, che lo vede come un perseguitato. Anche la denigrazione, come quella de “Il Mediatore”, può essere un modo per togliergli ogni credibilità.


Povero Don Ambrogio, anche se le idee che lui propugnava hanno trovato una conferma in tempi più vicini, lo si è presentato soltanto come una macchietta!


Questa è anche l’immagine che ci ha tramandato Alberto Viriglio.


Ecco, fra le «sagome ‘d l’epoca» la vivace e impietosa descrizione del prete ribelle, scritta in piemontese come appare in Turin d’una vòlta (1895): «Ij Turineis as ricòrdo soa barbëtta da cravon, so capel ‘d paia scura, la palandran-a che dal neir antich l’era passà al verd modern, le braje longhe e le scarpe sempre fruste. Drit s’un-a cadrega, a fasia soe prediche tremende ‘ncontra ai preivi e a le ingiustissie dla Curia! E a baolava! Òh s’a baolava!».

[I Torinesi ricordano la sua barbetta caprina, il suo cappello di paglia scura, la palandrana che dal nero antico era passata al verde moderno, i pantaloni lunghi e le scarpe sempre consunte. Dritto su una sedia faceva le sue prediche tremende contro i preti e le ingiustizie della Curia! E abbaiava! Oh se abbaiava!].

Viriglio, in Torino e i Torinesi (1898), conclude, questa volta in italiano: «Inviso ai preti e sospetto ai liberali, visse in patria gli ultimi anni infelici, tra una partita di bigliardo ed una di picchetto che gli procuravano qualche scudo, e chiuse la sua carriera in un angolo del Camposanto di Villanova ove ha finalmente trovato quanto a lui conveniva: l’oblio!».

(Fine della seconda e ultima parte) 

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Articolo pubblicato il 23/06/2017