La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

I “truffatori” di cioccolato

Questa storia inizia a Torino, il giorno 28 novembre 1844, alle due del pomeriggio quando un giovanotto si reca alla fabbrica di cioccolato di Paolo Caffarelli, in borgo San Donato, quella che diverrà la ditta Caffarel Prochet con sede in via Balbis angolo via Carena.


Il giovanotto si presenta ai garzoni come il primo garzone del Caffè del Monferrato e dice di essere stato mandato dal suo principale per ritirare due rubbi di cioccolato, più di 18 chili, per un valore di 40 lire: “Passerà poi il mio padrone a pagare…”. Il giovanotto non è troppo convincente, gli inservienti di Caffarelli si insospettiscono  e rifiutano di consegnargli il cioccolato, forse con modi un po’ aggressivi. Così il sedicente primo garzone caffettiere si allontana di gran carriera, seguito da un altro giovanotto, rimasto fuori a fare da palo, come diciamo noi oggi, «in aguato» (sic!) come scrive la sentenza di condanna del Senato di Piemonte da cui abbiamo tratto questa vicenda.


Abbiamo così fatto conoscenza di una coppia di giovani, attivi nella Torino carlalbertina e specializzati nel truffare i fabbricanti di cioccolato: il Codice Penale sardo del 1839 definisce come “truffa” l’appropriazione di qualche cosa approfittando della buona fede delle vittime.


Il primo dei due giovani truffatori, quello che si è spacciato per primo garzone caffettiere, si chiama Ferdinando Zedda: nato a Quittengo (Biella) e residente in Torino, ha compiuto da poco i 21 anni e si qualifica come garzone muratore.


Il suo complice è Giacomo Avaro, di circa 20 anni, nato a Dronero (Cuneo) e residente a Torino, che dice di lavorare come garzone caffettiere.


I due giovanotti, a quanto pare, non sono troppo assidui nel praticare i lavori dichiarati ma sono piuttosto astuti, insinuanti e persuasivi, capaci di assumere in modo convincente il ruolo che via via si attribuiscono per mettere a segno, sul finire dell’anno 1844, una serie di truffe – più fortunate di quella tentata a i danni di Caffarel! – operando sia da soli che in coppia.


Come già detto, i cioccolatai torinesi sono spesso loro vittime.


Nel pomeriggio del 26 novembre 1844 sono andati entrambi nella fabbrica di Giuseppe Rizzo. Giacomo Avaro si è presentato verso le due e Ferdinando Zedda verso le tre, dicendo di essere garzoni di un certo Gallina, esercente del Caffè della Giamaica, e così si sono fatti consegnare un rubbo di cioccolato ciascuno, sempre per un valore di 40 lire.


Lo stesso giorno, hanno truffato il negoziante Domenico Trogliotti: uno è entrato nel suo negozio dicendo di essere il garzone del droghiere Miaglia e si è fatto consegnare un rubbo di cioccolato.


In data imprecisata del novembre di quell’anno, hanno carpito a Susanna Roth un rubbo di cioccolato, del valore di 37,50 lire: uno aspettava fuori, l’altro è entrato nel negozio e si è qualificato come il garzone del caffettiere Gianolio.


Susanna Roth è stata vittima di una seconda truffa: uno dei due compari si è presentato alla sua fabbrica di cioccolato, mentre vi si trovava il commesso Giovanni Malan, gli ha detto di essere garzone del Caffè Casalegno e di essere stato mandato dalla stessa signora Roth. Così è riuscito a farsi consegnare 8 libbre di cioccolato, poco meno di 1,5 chilogrammi, del valore di 8 lire.


Anche se i produttori di cioccolato sembrano le loro vittime preferite, i due compari hanno eseguito anche altri colpi fortunati.


Ferdinando Zedda ha esordito come truffatore con una idea collegata al suo lavoro di garzone muratore: il 3 settembre 1844 si è presentato dal negoziante da corde Francesco Bonardo dicendo di essere stato incaricato dal capomastro Pietro Magnano, suo padrone, di acquistare 33 rubbi di corda, del valore di lire 280. Ha avuto la faccia tosta di presentarsi a ritirare la corda in varie riprese e poi l’ha venduta al ferravecchio Angelo Gastaldi per 80 lire.


Ma è stato Giacomo Avaro a dimostrarsi veramente un grande attore, capace di ingannare anche persone sveglie e smaliziate, mettendo in scena macchinosi  teatrini.


Il 23 ottobre 1844, Avaro ha truffato 18,50 lire alla ditta Vicino e Comp.,  qualificandosi come Giovanni Pellegrino, fratello del negoziante in ferro Giuseppe Pellegrino, residente a Borgo San Dalmazzo, col quale la ditta Vicino era in relazioni commerciali.


Il giorno dopo, Avaro si è presentato dai negozianti cugini Lasagno, dicendo di essere Giovanni Pellegrino, figlio del negoziante in ferro Giuseppe impersonato in precedenza. Era anche munito una lettera falsa e così si è appropriato di 20 lire e di un ombrello di cotone del valore di 10 lire.


Un parapioggia di seta nera, del valore di 18 lire, è stato la preda di una spedizione del 2 novembre 1844, nella bottega di Giovanni Subiglia, dove Avaro si è presentato come domestico dell’avvocato Claretta, incaricato di questa commissione. Così è riuscito a farsi consegnare il parapioggia, che ha poi impegnato lo stesso giorno al Monte di Pietà per 5 lire.


Il 24 novembre 1844, all’una pomeridiana, Avaro si è presentato nella casa di abitazione del cappellaio Vincenzo  Raineri, dicendo di essere il fratello del cappellaio Silvano di Cuneo, e gli ha chiesto 10 lire. Raineri non ha abboccato e Avaro gli ha portato via un orologio del valore di lire 15.


Anche Zedda si è esibito in una di queste performance: il 27 novembre si è recato nel negozio del calderaio Giovanni Marchi, dove si è presentato come l’incaricato di un certo Zambelli, agente del Monastero del SS Sacramento, per ritirare due casseruole di rame, del valore di 18,60 lire, subito impegnate da Avaro al Monte di Pietà, per 5,25 lire.


Per una truffa particolarmente elaborata hanno coinvolto un amico: Domenico Boita, nato ad Albiano, in Canavese, e residente a Torino, di circa 20 anni, «vermicellaio» cioè lavorante in un pastificio.


Verso la metà di novembre 1844 hanno rivolto le loro attenzioni a Guglielmo Marocco, stalliere dell’Albergo di San Simone di via Dora Grossa (via Garibaldi). Giacomo Avaro si presenta a Marocco dicendo di essere il fratello di un certo Olagnero, carrettiere di Dronero, e gli chiede 8 lire per poter tornare al suo paese. Marocco si rifiuta, dicendo di non conoscerlo. Avaro gli presenta Zedda e Boita, i quali si qualificano uno come garzone sarto e l’altro come mercante sarto e assicurano a Marocco che quel giovane è proprio il fratello di Olagnero. Sono tanto convincenti che lo stalliere Marocco finisce per sborsare all’Avaro le 8 lire.


Otto lire che i tre compari consumano quella sera stessa, molto probabilmente in gozzoviglie e stravizi, come è facile immaginare anche se la sentenza non lo dice.


Vengono arrestati, in data a noi ignota. In tasca a Zedda, le guardie trovano una lettera da lui scritta che prelude a una truffa: è datata 27 novembre 1844, firmata col nome di Pietro Magnano, capomastro di Torino, e diretta a certo Stefano Albasini per chiedergli 50 lire (questa lettera costituirà un capo d’accusa di tentata truffa). Gli vengono sequestrati anche due rubbi di cioccolato, presi al cioccolataio Giuseppe Rizzo.


I tre sono rinchiusi nelle carceri senatorie e processati dopo circa un anno per tutte le truffe, commesse e tentate, prima elencate. Secondo la procedura in vigore, il processo si basa essenzialmente sulle carte dell’istruttoria. Due imputati non partecipano al dibattimento: il Senato decide di interrogare il solo Ferdinando Zedda, che viene così portato in aula.


La sentenza del 30 ottobre 1845 assolve Zedda e Avaro per la lettera di richiesta di 50 lire trovata in tasca di Zedda al suo arresto. Sono dichiarati colpevoli di tutti gli altri capi di accusa: Boita, punito a sufficienza con il carcere preventivo già scontato, è rilasciato; Zedda e Avaro sono condannati al carcere per 5 anni ciascuno. Tutti tre devono indennizzare i danneggiati e pagare le spese processuali. E ancora, al momento del rilascio dovranno firmare un impegno scritto, la «sottomissione», a vivere per il futuro da persone perbene, astenersi dalle truffe, assumere un lavoro stabile e non dare più occasione di censure sul loro comportamento, perché in caso contrario saranno sottoposti alle pene previste dalla legge.


Non sappiamo che fine abbiano fatto i due simpatici truffatori. In ogni caso, le loro malefatte ci permettono di evocare vari cioccolatai torinesi, noti come nel caso di Caffarel oppure ormai dimenticati e ricordati soltanto da questi documenti giudiziari.

 

1 rubbo = kg 9,222

libbra da 12 once = kg 0,3688

Caffè del Monferrato: in via Po, davanti alla Chiesa di San Francesco da Paola.

Caffè della Giamaica: nella piazzetta della Corona Grossa (scomparsa con lo sventramento per creare la via IV Marzo).

Fabbrica Trogliotti: Portici della Fiera (i portici di piazza Castello compresi tra via Roma e via Po), porta 17.

Albergo di San Simone: nella attuale via Garibaldi al n. 13, dove oggi si trova il Centro Studi Sereno Regis.

Monastero delle Adoratrici perpetue del SS Sacramento:in via dei Mille angolo via Calandra.

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Articolo pubblicato il 30/04/2017