La mediazione culturale organizzata con imprenditorialità (e ironia)

L’osteria volante di Chesterton ci aiuta a comprendere il dell’iniziativa privato nel rapporto fra costume e religione

L’osteria volante è un romanzo futurista pubblicato nel 1914 e l’autore è G.K. Chesterton, scrittore britannico noto in Italia soprattutto per “I racconti di Padre Brown” mini-serie poliziesca per ragazzi prodotta dalla RAI nel 1970.

Racconta vicende che si sarebbero svolte nei cento anni successivi, fra cui una guerra al termine della quale è uscita vincitrice la Turchia in rappresentanza dell’islamismo mondiale, e sconfitte le non meglio precisate “Potenze Europee”. I turchi impongono le loro condizioni: tutte le vigne devono essere abbattute: ne beneficeranno – si dice - le classi meno abbienti, fino a quel punto abbrutite dall’alcool; l’Europa deve diventare vegetariana e non consumare più carne di maiale ma – soprattutto – deve uniformarsi agli insegnamenti del Profeta.

C’è stata una Resistenza da parte di partigiani greci sostenuti da un irriducibile “Re di Itaca”, Patrick Delroy, un irlandese ex ufficiale della Marina Britannica trapiantato nell’Egeo. Lord Ivywood, ministro plenipotenziario britannico, il dr. Gluck, tedesco, il pascià turco e Delroy siedono per la firma del trattato di pace su un’isoletta disabitata fra Turchia e Grecia. L’irlandese, preso atto delle intenzioni europee di cedere su tutti i punti dell’accordo, abbandona il tavolo per tornare alla “Vecchia Nave”. Lui intende un’osteria inglese alla quale è affezionato, gli altri capiscono il vascello sul quale aveva navigato.

 

Delroy - appena arrivato alla “Vecchia Nave” – si trova testimone dell’intervento di Ivywood, che, accompagnato dalla polizia cerca di far chiudere questa che è una delle ultime ancora in funzione.

Secondo l’ordinanza esibita dal Lord devono essere chiusi tutti i locali dove si vende alcool salvo quelli identificati dal Parlamento tramite l’insegna. “Ma – sostiene Delroy – qui fuori l’insegna c’è, quindi questo locale è autorizzato alla vendita di alcoolici”.

Nella confusione Delroy e l’oste riescono a fuggire portando con loro un barilotto di ruhm, una ruota di formaggio e l’insegna, che appendono d’ora in poi in cima a un palo mobile.

Da questo punto l’autore racconta con ironia le contraddizioni della cultura islamica imposte alla società inglese tradizionale.

Sulle scene compare un intellettuale turco, ospite di Ivywood, che vive come conferenziere spiegando che ogni buona cosa in Inghilterra va attribuita alla penetrazione culturale dell’islam nei secoli (a cominciare dai nomi delle osterie).

La “associazione delle anime semplici”, un circolo culturale per la diffusione dei nuovi austeri costumi, viene spiazzato dalla comparsa in sala di un gruppo di “ubriaconi” (al seguito della insegna della “Vecchia Nave”), ai quali non sa opporre argomenti fondati.

Un giornalista, ligio assistente del Lord, cerca con la confusione dei suoi scritti e dei suoi atteggiamenti, di barcamenarsi tra il potere e gli amici/avversari. Il cane di Ivywood, Mr Quoodle, scopre che gli “ubriaconi” sono più attenti alle sue esigenze di quanto lo sia mai stato l’asettico padrone; naturalmente Ivywood e i suoi ospiti al castello consumano – autorizzati - pasticcini non vegetariani e bevono champagne.

Il “Crislam”, il cristianesimo islamizzato, punta alla instaurazione di pensieri e azioni favorevoli all’Islam senza che gli inglesi lo notino.

L’impronta di dipendenza economica deve seguire la stessa traccia. Il capitano Dalroy e l’oste esercitano l’attività di ristoratori di fortuna sempre in fuga ma mai acciuffati, finché incontrano un nobiluomo naturalista che li aiuta, anche se vive intellettualmente sul pianeta della Poesia. Riescono a sollevare la protesta popolare e una marcia fino a portare la questione dei rapporti fra costume e religioni in Parlamento.

Giancarlo Micono

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Articolo pubblicato il 05/04/2017