La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini
“Gli ubriachi” (1883), opera del pittore belga James Ensor (Ostenda, 1860-1949).

Tre rapinatori che si accusano reciprocamente

Si è già scritto più volte che, per i lettori dei giornali torinesi dell’800, la cronaca nera del lunedì rappresenta spesso un vero e proprio bollettino di guerra per il grande numero di litigi, risse, accoltellamenti avvenuti fra coloro che “santificano” la festa nelle osterie. Non mancano vere e proprie rapine, come quella descritta dalla “Gazzetta Piemontese” di lunedì 31 ottobre 1870: «Il facchino M… Maurizio, d’anni 52, mentre faceva ritorno ieri, alle 2 ant., alla propria abitazione, giunto in via Roma, in borgo S. Donato, fu assalito da tre mariuoli, i quali, dopo di averlo percosso leggermente, lo depredarono di L. 12 che aveva indosso, dandosi poscia a precipitosa fuga per le adiacenti campagne».


La via Roma del borgo San Donato oggi si chiama via Vagnone, denominazione che le verrà attribuita nel dicembre del 1871.


Per fortunate circostanze i responsabili dell’aggressione vengono identificati, arrestati e processati. La disavventura del povero “M… Maurizio” acquista contorni più precisi nella cronaca giudiziaria che Curzio pubblica sulla “Gazzetta Piemontese” di sabato 11 febbraio 1871.


“M… Maurizio” è Maurizio Mongis, detto Volvera, che Curzio così presenta: «… un vecchio facchino che stanzia abitualmente sulla piazza Savoia in Torino. Egli è un nomo onesto e fedele, lavora molto volentieri e guadagna 30 lire circa per settimana; ma insieme a tante buone qualità, ha il brutto vizio di ubbriacarsi, specialmente alla sera dei sabati».


La sera di sabato 29 ottobre 1870, per restare fedele alla sua brutta abitudine, il nostro Volvera si è recato nell’osteria del signor Calosso in via Santa Chiara, e ha bevuto vino fino a perdere la cognizione. Si è così esibito in un piccolo show: gli sono cadute a terra delle banconote e, quando lo hanno avvertito, non le voleva raccogliere dicendo che lui di denaro ne aveva a bizzeffe e che non sapeva più nemmeno che cosa farne!


Verso le undici della sera, Calosso vuole chiudere l’osteria e Volvera deve andarsene. La vivace descrizione dell’ubriaco abbandonato a se stesso e privo di riferimenti che Curzio ci presenta, non sfigura a confronto con le scene analoghe proposte dalle canzoni di Gipo Farassino: «Trovatosi a ciel scoperto, non conosceva più la strada che lo conduceva a casa sua, posta nel borgo S. Donato. Le vie per lui erano diventate strette, barcollava qua e là battendo delle spalle or in un muro, ora nel muro opposto, e qualche volta del preterito sul selciato.


Per fortuna gli passò vicino un tal Caselle che gli era amico:

- Ehi, Volvera, gli disse, pare che la strada sia tutta tua…

- Vado a casa.

- Per questa via vai in piazza d’Armi e non a casa.

- Tutte le case girano e corrono, quando passerà la mia vi entrerò.

- Vieni, vieni con me, ti accompagnerò nel borgo San Donato».


Caselle prende Volvera a braccetto e, a fatica, riesce a portarlo verso casa. Ma, giunti nel borgo San Donato, quando passano davanti all’osteria di Roma che prende il nome da questa via del borgo, Volvera sente il richiamo dell’alcool e dice all’amico:

- Andiamo a bere, ti voglio pagare un bicchierino di rhum.

- Andiamo, andiamo a casa, prova a dissuaderlo Caselle, ma Volvera ribatte:

- Andiamo a bere – e così dicendo, entra nell’osteria e ordina un bicchierino di rhum. Caselle beve e poi se ne va per i fatti suoi: per quella sera ritiene di aver già fatto la sua buona azione.  


Nell’osteria vi sono tre giovani sui vent’anni, Giovanni Nizzia detto Pollastro, Ludovico Boggio e Giuseppe Tagliaferro, che abita in una camera attigua a quella di Volvera. Si riconoscono, fanno un po’ di conversazione da ubriachi, bevono del rhum insieme e poi quando si tratta di pagare, attaccano briga. Tagliaferro, invitato da Volvera a bere il rhum, non vuol pagare. Volvera vuole pagare soltanto il suo bicchierino. Scoppia un grave litigio e Tagliaferro dà un potente schiaffo al facchino che lo fa cadere a terra.


Quando si rialza, aiutato dell’oste, Volvera chiede scusa a tutti poi, come se si fosse trasformato da tirchio in generoso, tira fuori un pacco di piccole banconote e dice di voler pagare non solo il rhum ma anche i tre mezzi litri bevuti dai tre giovani.


L’oste, non autorizzato a ricevere il pagamento del vino consumato da altri, lo rifiuta e così Volvera si mette a discutere perché non si vuole accettare il suo denaro. Per evitare ulteriori polemiche, l’oste lo butta fuori della porta: il nostro ubriaco, di nuovo alla deriva, se ne va barcollando per il borgo San Donato.


Poco dopo escono anche i tre giovani che inseguono Volvera, lo raggiungono, lo gettano a terra, lo picchiano e gli prendono i soldi per un valore di circa 12 lire.


A Volvera, le botte fanno passare i fumi del vino: ritornato lucido, si ricorda di tutto quello che gli è capitato. Denuncia i rapinatori alla polizia, che prende le opportune informazioni e ordina l’arresto di Nizzia, Boggio e Tagliaferro.


Giovanni Battista Nizzia, detto Pollastro, ha 21 anni, è di Torino e lavora come “armajuolo”; Giuseppe Tagliaferro, di 21 anni, è nato a Cambiano ed è fabbro ferraio; Ludovico Boggio, di 19 anni, è nato a Valperga ed è fabbro ferraio.


Tagliaferro e Nizzia vengono subito catturati. Tagliaferro sostiene di essere innocente: secondo lui, Volvera è stato rapinato da Nizzia, che lo teneva, e da Boggio che gli ha preso i soldi. Nizzia nega tutto e dichiara di non essere informato del fatto. Boggio, quando viene a sapere di essere ricercato, il 2 novembre, si costituisce volontariamente e afferma di essere innocente per riversare tutta la colpa sugli altri due.


Tutti tre sostengono di essere innocenti ma la Corte d’Assise di Torino li ritiene tutti tre colpevoli e, con sentenza del 9 febbraio 1871, li condanna: Nizzia a 10 anni di lavori forzati, Tagliaferro a 10 anni di reclusione e Boggio a 7 anni della stessa pena perché minore dei 21 anni ma maggiore dei 18 quando commetteva il reato. Boggio e Tagliaferro otterranno, nel 1876, la riduzione di un anno e, il 20 giugno del 1880, a Nizzia sarà condonato il resto della pena.


La cronaca di Curzio si lascia apprezzare più che per i risvolti investigativi come momento di propaganda contro l’ubriachezza che, al tempo, rappresenta un gravissimo problema sociale, molto sentito in tutta Italia e considerato in numerose pubblicazioni divulgative a carattere moralistico.


«… l’uomo che si concede in balìa di questa umiliante passione, rinuncia alla dignità del suo carattere; uccide spontaneamente quanto v’ha in sé di nobile e di grande…» leggiamo ne “L’ubbriachezza, discorso dell’Abate Bartolo Bertoncello” (Bassano, 1866). E ancora: «L’ubbriachezza è dunque quella passione che spinge l’uomo ad abbandonarsi al turpe abuso di quelle bevande che possono alterare sì le funzioni materiali che le manifestazioni spirituali ed intellettive», come scrive Faustino Ceccarelli ne “L’ubbriachezza sotto il rapporto igienico, patologico e morale” (Roma, 1874), per concludere con le parole del dottor Eugenio Fazio: «Io posso confessare che sento muovermi più disprezzo per l’ubbriaco, che per la meretrice. È facile che questa possa essere una vittima della seduzione e della miseria; ma l’ubbriaco… no: egli è un prostituto volontario» (“L’ubbriachezza e le sue forme”, Napoli, 1875).


Molto più pragmatico, Curzio scrive che «Tutti aspettano con impazienza la promessa legge sull’ubbriachezza, ad eccezione di coloro che hanno la cattiva abitudine di trangugiare molto vino o bevande spiritose. Eppure se costoro riflettessero bene, vedrebbero che tal legge tornerebbe più vantaggiosa ad essi che agli altri.


Per tema della sanzione penale, essi berranno moderatamente, facendo sotto quest’aspetto economia, vivranno in salute, non si degraderanno più barcollando in pubblico, non saranno più cosi facilmente esposti ai diverbi, agli alterchi, alle sanguinose risse e non avranno più a temere che malfattori abusino del loro stato di debolezza per derubarli dei denari che per avventura avranno sulla propria persona», come è capitato a Maurizio Mongis, detto Volvera.


Sicuramente si tratta di affermazioni ragionevoli, basate su un esempio concreto e tangibile, che probabilmente avranno avuto lo scarso effetto delle pubblicazioni moralistiche prima ricordate!

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Articolo pubblicato il 09/03/2017